Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
20ª edizione - (2017)

Io, come Novecento, tra le onde dell’oceano

Da qualche tempo l’insonnia mi sussurra insignificanti parole all’orecchio, accarezzandomi il volto giornalmente, con le sue mani scheletriche, nascosta nell’immensità della notte. Puntualmente la medesima storia si ripete: sgrano gli occhi, tentando di placare il grido del cuore che corre senza mai prefissarsi una meta, selvaggio e solitario, valoroso guerriero. Perforo il soffitto alla ricerca di una visione nitida della realtà, sfuggendo ai pensieri, avvolta nelle vesti dell’infantile ingenuità. Il timore del buio aggredisce la mia esile struttura, affondando la tagliente estremità delle unghie all’interno della pallida carne: l’impulso di un brivido invade l’intimità della schiena. Intorno a me tutto tace all’insegna della monotonia, dell’indifferenza, della nullità. Poso la mano sul comodino, avida di compassione, desiderosa di scorgere la sagoma di una presenza amica: afferro la copertina del libro, un capolavoro di Alessandro Baricco, un monologo dal titolo Novecento.
Sospiro.
Percepisco la ruvidità delle pagine che si contrappone alla superficie vellutata dei polpastrelli: mi immergo nella lettura, evadendo da un presente egoista e incapace di comprendere, cinico traditore. Attendo in silenzio, rapita dalla speranza di scovare, nella profondità della narrazione, le risposte alle domande che l’esistenza mi pone, penetrando nell’assenza di logica che pervade il dubbio, l’ignoto, l’impalpabile.

Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire… Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, che per primo la vedeva.

Immediatamente, come illuminata da una voce interiore, cesso di divorare con voracità le parole dell’autore, affascinata dal parallelismo presente tra l’incipit del racconto e il fiorire del mio trascorso. Intravedo, in lontananza, il marcato contorno di un vascello, un veliero dotato di ali: la visione materialistica di un gabbiano intento a fuggire verso il profumo della libertà, l’urlo del successo. Scompaio dietro al ritmico rincorrersi dei pensieri, alla stravaganza di mille idee che si sovrappongono, calpestandosi e facendo l’amore al tempo stesso.
L’umana abitudine tende sempre ad associare al lettore il ruolo di premuroso ascoltatore, ponendo la sua originalità, la sua vena artistica in secondo piano, sullo sfondo di una scenografia spoglia, arida, inconsistente. Non ho mai amato lasciarmi guidare dall’ordine imposto dall’assioma, dal postulato, per convenzione: vago nel vuoto, fingendomi una scrittrice guerriera, intenta a formulare il proseguo della storia, distaccandomi dall’autore, senza mai cessare di giocarci insieme.
Serro gli occhi: la nave, quella stessa nave, mi attende, laggiù, abbandonata dalla costa e dalla gente, immobile. Ormai ho commesso l’errore di alzare lo sguardo, dimenticandomi di schivare la sua assillante presenza; ormai è scaduto il tempo, non posso più negare l’evidenza tentando di porre in mostra il mio essere bambina. Innalzo le braccia al cielo: mi arrendo.
Il capitano accenna un saluto, invitandomi a montare a bordo. Senza esitare, mi appendo ai pioli della scaletta, un passo dopo l’altro, allontanandomi dalla terrena mortalità. Odo il riecheggiare di dolci note musicali: chissà da dove provengono, chissà come mai sono intente a riflettere il loro lucente volto sulla superficie dello specchio marino. Sorrido.
Una signora mi accoglie: gli occhi neri e infossati, una bocca grande, la fronte imponente assopita sull’orlo delle sopracciglia, gli zigomi impregnati di cipria, un naso minuscolo, i capelli raccolti sulla cima della nuca, le gambe chilometriche, il seno inesistente, le mani nude e ossute. Chi è? Che cosa vuole? Fingo di aver sbagliato strada, intenta a tornare da dove sono venuta.
Ella mi fissa, muta, senza emettere alcun suono, severa e imbronciata. Mi porge un ammasso di tulle bianco e un paio di calze rosacee, conducendomi al centro di una sala da ballo odorante di pece. Non riesco ad afferrare l’essenza della presente realtà: tutto appare celato da un aspetto deforme, posto all’interno di una caotica circostanza. Uno schiocco di dita e inizio a danzare, trasportata dal canto istintuale dell’anima, improvvisandomi la regina del balletto, sotto lo sguardo critico della femminile figura.
I mesi si susseguono, rincorrendosi sul pendio della collina vicina e annunciando l’allegra venuta della primavera. Mi rendo conto di non appartenere più alla categoria dei comuni abitanti del pianeta, di quelle persone tutte uguali, monotone, perpetuamente stregate dal tono stridulo della medesima cantilena, noiose e assenti. Smarrisco la mia identità, dipingendo i contorni di un futuro esplosivo: muto nel perfetto ritratto dell’inesperto sognatore.
Trascorro il mio tempo dialogando con i muscoli di un corpo vivo e possente, alla ricerca di una perfezione eterea e fuggitiva, ipnotizzata dal timore del fallimento. La mia vita si riduce a una lotta per la sopravvivenza: a ogni pirouette non riuscita si contrappone la magia dell’autodisciplina; ogni sospensione del salto nel vuoto comporta un’accurata preparazione tecnica. La causalità si affievolisce, abbandonando la scena. Mi disperdo nello spazio, conservando in grembo la mia danza e diffidando dal contatto con il mondo esterno: vago con la mente, galoppando senza sosta, libera pellegrina.

Una volta chiesi a Novecento a cosa diavolo pensava, mentre suonava, e cosa guardava, sempre fisso davanti a sé, e insomma dove finiva, con la testa, mentre le mani gli andavano avanti e indietro sui tasti. E lui mi disse: «Oggi son finito in un paese bellissimo, le donne avevano i capelli profumati, c’era luce dappertutto ed era pieno di tigri». Viaggiava, lui. E ogni volta finiva in un posto diverso.

L’indomani, improvvisamente, qualcosa subisce una metamorfosi: l’atmosfera si carica di tensione, descrivendo il profilo frastagliato dell’inquietudine e infrangendosi contro gli scogli. La donna compare ancora una volta, trainando una valigia scorticata dall’azione degli anni, fredda e impenetrabile. Mi pone in mano un piccolo ritaglio di carta, inumidendomi la tempia destra con la saliva di un bacio: mi volta le spalle, portando con sé una fotografia che sbiadisce con la distanza.
Tento di decifrare la sua calligrafia: «Addio stella del mattino, addio. Non cessare mai di spiegare le ali e ricordati di volare, di volare sempre, oltrepassando i limiti di un Infinito interminabile. Il tuo destino ha eletto la danza come anima gemella e io ho tentato di combinare il vostro incontro. Adesso tocca a te: la corazza che orna le tue spalle ti proteggerà durante il combattimento. Buona fortuna!».
Una lacrima scalfisce la rotondità della guancia: non capisco come una straniera, estranea alla mia vita, abbia potuto captare la consistenza di una verità indubitabile. L’orizzonte infuoca l’involucro delle pupille, incidendo il cielo con mille pennellate rossastre. Giunge la sera: l’armonia del silenzio si frantuma sotto il peso di voci indistinte. Senza preavviso e con estrema rapidità, il vuoto, al mio fianco, si annulla con l’arrivo di volti nuovi, mai visti. La nave sbuffa, ritirando l’ancora: si parte.
Navigo, io e le onde, oscillando e danzando, danzando e oscillando. Il giorno del mio debutto, il teatro straripa di passeggeri: l’imbarcazione geme, appesantita dalla folla inerme. Il sipario si apre tra gli applausi del pubblico. Punteggio il palcoscenico con l’estremità delle scarpe da punta, tic toc, arrestando il sorgere di strane paure. Finalmente, per la prima volta, percepisco il sapore della felicità che si posa sulla pelle: la primula fiorisce, infastidita dall’invadente raggio solare.
La musica si interrompe bruscamente, incitando l’adrenalina a scemare con delicatezza: tutto finisce all’ombra di una notte tempestosa, portandosi via le vesti della ballerina, di quella divinità contemplata e venerata dall’ordinaria umanità.

Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio.

Spalanco gli occhi: il libro ancora tra le mani, l’alba che risveglia il lavoratore ancora stanco, il rimorso per non aver dormito, la nebbia che culla il meccanismo mentale. La lettura ha lasciato che mi addentrassi in una quotidianità parallela, permettendo la stesura del tomo della mia esistenza, la cui risoluzione permane ancora ambigua, incerta, vaga.
È incredibile come la narrazione di una storia riesca a trovare il coraggio per spalancare segrete porte.
Strofino la mano sulla fronte corrucciata. Se Novecento, il protagonista dell’opera, è già entrato fisicamente in contatto con la sua futura epoca, il suo destino, il punto fermo per eccellenza; io devo ancora elaborare la conclusione. Egli si è affidato alla sapienza dell’autore, incapace di prendere posizione: io traccerò la mia sorte, comandante della mia nave, dalla quale non scenderò mai più.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010