Mostra di vita
Ho conosciuto una ragazza. Una di quelle che ti cullano nelle notti di incubi, una di quelle che fermano il tempo con uno schiocco delle dita, un’amica d’infanzia, un’anima gemella, una madre.
Il primo contatto con lei lo ebbi da piccolo, spesso ero solitario. Mi apparve dal nulla e con un timido cenno mi invitò a seguirla piano piano e io ricalcai fiducioso i suoi passi.
I primi amici che ricordo erano quelli che lei mi aveva presentato uno per uno tenendomi la mano e scorrendo dolcemente, quasi scrutasse nella mia testa disponendo tranquillamente dei miei ricordi. Li estraeva, li scrutava, ci giocava soppesandoli tra le mani e li rimetteva a posto mentre ero impegnato a osservare ciò che stava intorno dall’elevazione di un’altura.
La vita stessa mi pareva una enorme banco di nebbia: imperscrutabile, celante un mistero che attendeva, silenzioso e paziente, che qualcuno tendesse a lui la mano proprio come quella bambina aveva fatto con me.
Mio padre non fu molto presente in questo periodo, aveva un lavoro a tempo pieno e una carriera che lo consumava insieme alla sua realtà, mi è sempre apparso serio e distaccato, spesso aveva degli occhi svuotati dalla fatica e un’espressione totalmente insensibile: una sorta di incarnazione dell’ideale sbagliato di perfezione.
Io ero forse quello che c’è di più vicino alla sua immagine riflessa in uno specchio incrinato dalla solitudine e dal rimorso: occhi vacui, una sensazione di smarrimento totale. Cercavo la consolazione muovendo la mano e attendendo la replica dello specchio ma trovai solo uno sfregio alla logica.
La stagione delle nebbie non sembrava affatto terminare, lei sembrava però avere un legame molto forte con quello che stava al di sotto, probabilmente è proprio da lì che arrivava. Spesso le chiesi di rivelarmi quel grande mistero ma lei sorrideva dolcemente e portava il dito indice davanti alla bocca senza nemmeno proferire una parola.
Spesso il suo silenzio mi irritava parecchio e finivo per non rivolgerle la parola per giorni, evitandola e facendo finta di non conoscerla; l’altezza mi aveva reso troppo orgoglioso, mi sentivo superiore e autorizzato a conoscere ogni cosa a ogni costo senza eccezioni, dimenticando stupidamente la nebbia.
Tornai da lei scusandomi, comprese perfettamente senza fare alcuna piega e tendendomi per l’ennesima volta la sua mano delicata e candida A quei tempi amava misurarla con la mia, muovevamo le mani come se fossero sincronizzate e, sovrapponendole, erano praticamente identiche. Avanzando con il tempo mi accorsi di come lei fosse costantemente circondata da quell’alone di sicurezza e mistero che la rendevano affascinante e distaccata, una sorta di entità che guidava chiunque la seguisse verso il suo obbiettivo principale.
Il tempo intorno a lei si diluiva, scorreva, si scioglieva lentamente e pacatamente rendendo ogni momento dolce ma rapido e indimenticabile, fu così che arrivai alle scuole medie. Nonostante tutto io ero ancora adagiato a osservare la massa bianca sotto di me.
Un giorno, mentre osservavo le volute di nuvola salire, lei arrivò e indicò un piccolo punto nel mezzo del candido. Si intravedeva finalmente un minuscolo spiraglio, traspariva il giallo sporco di qualcosa che, in quel momento, era comunque totalmente ignoto alla mia mente; spesso il colore era interrotto da macchie nere che passavano veloci e minacciose offuscando il poco che mi era concesso.
Lei mi apparve sempre più affascinante a partire da quell’episodio, mi ricordava sempre di più un angelo, scendeva su di me irradiandomi della sua luce e cullandomi dolcemente reggendomi il busto e la testa. Io tentavo di trattenerla ma ero come intorpidito da quella sensazione di irraggiungibilità e le mie mani arrivavano appena a cingerle dolcemente il collo fallendo totalmente nell’intento di comprenderla meglio.
Cominciai a vedere mio padre come una sorta di ritaglio della mia vita, una sagoma che si distorceva e mutava mostrando quella che per lui era la realtà. L’estraniazione non gli impedì, però, di notare il mio rapporto con quella ragazza. Un giorno mi disse che era felice di vedere che finalmente mi dedicavo a qualcosa, probabilmente era rincuorato di non vedermi tanto vuoto quanto lui. Il sorriso che mi pose subito dopo servì, forse, a sanare, parzialmente, le ferite dello specchio.
Presi in seguito il pullman per la scuola e lo vidi allontanarsi verso la macchina, vestito elegante, ricoperto di nero. La scuola era diventata più impegnativa e spesso mi portava a trascurare la compagnia di tutti tranne che quella della ragazza. Guardandomi in classe realizzai come tutto quel periodo fu piatto e spigoloso, chi mi circondava aveva quasi una fisionomia geometrica e un volto irriconoscibile e oscurato da lei. Lei è stata la mia prima e ultima cotta e probabilmente l’unica che mi abbia toccato così nel profondo.
Era il centro della mia vita, la mia stessa ragione vitale e così decisi, bruscamente, di svelarle il mio amore. Lei, con i capelli mossi dal vento, accettò la mia irruenza, rise di pura tenerezza e contraccambiò. Mi prese la mano. Mi portò con sé. Giungemmo in un campo di grano, con spighe talmente alte da arrivare al busto. Io arrivai e vidi le sue braccia distendersi come a volermi mostrare un qualcosa di nuovo ma non riuscii a capire cosa succedesse. Lei, compresa la situazione, indicò con il dito verso un punto dietro di me; io alzai lo sguardo e vidi un’altura ripida e sola, fu allora che capii.
Presto notai che quell’alone di incomunicabile spariva lentamente, in mezzo a quell’atmosfera gialla candida io riuscivo a toccarla, delicatamente, passando una mano nei suoi capelli e reggendole il capo dolcemente adagiato sul collo accarezzato dall’altra. In mezzo a quella felicità e a quella semplicità passarono i primi anni di liceo, spesso finii per occupare il mio tempo in mezzo al grano ondeggiante della stessa semplicità con cui vedevo la mia vita, l’unico quesito che mi rimaneva erano quelle macchie nere che avevano, anche se per poco, oscurato la vista sul mare di grano.
Lei mi raggiungeva sempre più spesso tra le spighe ma faceva molta fatica a trovarmi, come se non fosse mai vissuta in quel posto, come se ci fosse stata appena in visita per poi rimuoverlo subito dopo. Un giorno lei disse che era ancora troppo presto per me, non era ancora il momento di mostrarmi casa sua, dove lei è nata e cresciuta.
Il resto della mia realtà aveva lentamente ripreso il margine che aveva perso: a scuola avevo buoni amici ma non avevo molto tempo per loro, spesso mi accorsi di come potevo dividere la mia vita in colori, lei era il giallo: la tranquillità e la follia, ciò che animava il mio corpo, i miei conoscenti erano il rosso, caldo ma di parte, tendevano a spandersi verso di me ma erano assorbiti dall’omogeneità del grano mentre mio padre rimaneva il blu, si contraeva verso l’interno, ingoiato da sé stesso, quasi a lasciare la tela senza alcuna tonalità scura.
L’avvenimento che cambiò tutto fu proprio quella figura paterna che era destinata a fare terra bruciata dei miei sogni e della mia felicità. Giunse una sera, al ritorno dal lavoro, vestivo per l’ennesima volta di quel nero puro si avvicinò a me e disse che non potevo più frequentare quella ragazza. Le motivazioni furono tante quanto inutili per me, mi avrebbe portato su una brutta strada, mi avrebbe prosciugato di tutto senza darmi in cambio niente, mi avrebbe dato un futuro ancora più incerto e triste del suo, mi avrebbe ridotto all’ombra di me stesso, ma a me non importava affatto.
Scappai per recarmi al campo di grano come se ormai conoscessi la strada, ripresi fiato e mi apprestai ad assistere al disastro che stava accadendo: tutto il grano era stato consumato da qualcosa e tra le spighe appariva ancora una macchia color pece che martoriava la tranquillità ormai flebile del paesaggio: corvi.
Cominciarono a levarsi in volo, lei era nel mezzo del loro volo. Mi tendeva la mano. Potevo vederla piangere. Lo stormo mi privò della sua vista e mi attaccò violentemente costringendomi a scappare, lei era lì ad attendermi ma io non ero riuscito a raggiungerla. L’intera ampolla di inchiostro nero era caduta sulla tela, l’armonia era in pezzi. Quello che recuperai fu un rosso indesiderato e un blu innaturalmente ostico che mi impediva tutto il resto. Rimanevo lontano, osservavo il rosso contrarsi in piccole fiammelle di cui non percepivo più nemmeno il calore, il blu rendeva tutto sempre più omogeneo sulla tela e mi dava una sensazione di apnea nauseante, il nero dei corvi si spandeva verso l’alto creando un enorme ammasso monocromo violento e disordinato.
Quel giallo lucente e speranzoso sembrava essere perso per sempre. Arrivai a odiare mio padre, lo detestai per anni e anni, mi aveva costretto a un sentiero che non era il mio, a un futuro che non era il mio, a non essere me. A lui andava bene, arrivava dal nulla e pensava di poter essere il pittore, di disporre dei colori come voleva, ma si sbagliava.
Decisi di incontrarla in segreto, aggirando lo stormo o cercando in qualche modo di evitarlo. Gli anni di distanza tra noi avevano avuto un pessimo effetto, non riuscivo quasi a capire quello che diceva, non la capivo, non riuscivo nemmeno a riconoscerla.
Era tornata come prima: lontana, irraggiungibile, non mia.
Abbandonai volta per volta i miei sforzi di ribellarmi e presto decisi di seguire il percorso prestabilito… iniziai a lavorare in uno studio legale, alla fine persi anche la percezione stessa della mia vita, tutto appariva sfocato e indistinguibile; ogni giornata pareva uguale, bruciata nel rimorso.
Mio padre mi mostrava con fierezza ai suoi colleghi e io ubbidivo sorridendo e mostrandomi come un burattino, merce da esposizione messa per compiacere gli istinti paterni di qualcuno che li aveva appena trovati senza un motivo apparente, allo stesso modo mi comportavo con i miei pochi amici, in mezzo a quell’ambiente rosso non ero altro che un oggetto tangibile che mostrava le sue prestazioni con ostentata fierezza.
Passavo le notti in lacrime, impotente, mi rimaneva solamente polvere di tutto quello che ero prima. Dopo un tempo incalcolabile il mio genitore si accorse di aver compiuto un grosso errore, si accorse della mia infelicità solo dopo aver soddisfatto il suo ego smisurato tanto da squarciare la sua realtà e permettergli di vedere finalmente quella che era la verità: suo figlio era come lui quando la carriera l’ha consumato.
Fu così che, preso dal rimorso, mio padre mi lasciò decidere del mio destino e del mio futuro; prese un figlio distrutto e gli aprì le porte della gabbia.
Io mi trovai disorientato, spaesato, non ricordavo nemmeno ci fosse qualcosa al di fuori della prigione, cominciai con i primi passi; questa volta l’individuo che mi aveva distrutto mi aiutò a ritrovare i pezzi per strada, in cerca magari di un’ultima speranza, ma presto si accorse di essere molto più lontano di quanto non fosse prima, la sua figura per quanto sanata dalla finzione rimaneva ora trasparente e indifferente per me, sullo sfondo come tutto il resto: non importante.
Tornai al campo di grano, i corvi erano totalmente svaniti e lei con loro.
Se n’era andata. Mi tornò in mente quella sua sensazione di smarrimento che mi dava quel campo e realizzai che forse quello non era effettivamente il suo luogo di origine. Tutto l’ambiente aveva perso quella sua lucentezza e tutto era rimasto buio e indistinguibile. Al centro del nulla rimanevo io che, senza lei al mio fianco, mi riducevo a essere proprio come quello che mi circondava. Avevo rinunciato come un vigliacco e ora rimanevo da solo.
Un enorme arbusto cresceva verso l’alto, longilineo, e prendeva il posto dell’enorme colonna di corvi con le sue tinte nere e deprimenti. Impotente e disperato decisi di abbandonare il tutto, fu una pessima scelta. Mancava una parte del mio mondo, la metà sana della mia anima ormai consumata era svanita completamente.
Cosa rimane se la vita è monocroma? Un luogo spaventoso e sconosciuto da cui nessuno è mai tornato, una discesa nel profondo della solitudine e della depressione senza fine. Smarrito e disorientato perdevo la concezione di tutto.
Una mano sulla spalla. Mi girai in lacrime e riconobbi una luce azzurra e gentile, mio padre mi disse che non potevo abbandonarla dopo così tanto tempo, dopo così tanti sforzi, dopo l’inferno che ho passato; non era il momento.
«Non dimenticare che lassù c’è sempre qualcuno che guarda».
Già… lassù, il cielo. Perché non ho mai levato gli occhi al cielo? Una colorazione azzurra e rischiarante scolpiva la volta e lasciava trasparire la luce gialla e pura verso il basso. E, infine, la luna: centrale, sola e triste.
È lì che ti troverò.
Cominciai a scalare quell’enorme albero fino alla sua punta che ormai collideva con le stelle stesse. Pianti, pentimento, tristezza, depressione, apatia: spazzate via dalla speranza che mi irradiava dall’alto. Arrivai infine alla punta, in quel momento mi prese una gran paura di saltare nel vuoto. Da dietro una voce gentile e paterna mi spinse dicendo di andare senza alcun timore, saltai a occhi chiusi e con un sorriso infantile.
Cullato dalla luce delle stelle e guidato dalla volta stessa lentamente mi avvicinavo alla falce lucente. Misi i piedi sulla superficie e sentii immediatamente come la pressione mi mettesse un lento disagio. Mi avvicinai all’estremo della falce e trovai lei, sola e pensierosa. Corsi, corsi da lei con la vita stessa che pensavo di aver preso con lei, corsi come fosse l’ultimo secondo dell’incubo verso il sogno infinito, in preda alla foga.
La chiamai a gran voce, lei si girò, corse verso di me e la abbracciai con tutte le mie forze.
La luna divenne piena, completa: la luce avvolgeva completamente la falce rendendola perfetta ed essa tornò a rischiarare il cielo con scie di luce e spirali di calore rassicurante. Capii finalmente da dove veniva la mia amata: il luogo a cui molti affidano i loro sogni, il loro amore, la loro stessa vita; andando avanti guidati dalla luce della loro ambizione e della speranza che rassicura chi ne è irradiato.
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