Lei
Aprii di colpo le tende e una nube di polvere incominciò a spargersi per tutta la stanza, facendomi starnutire.
Contro luce i granelli di povere e i numerosi acari erano evidenti, come non avrebbero potuto esserlo, dopo sei anni.
Esattamente sei anni.
Tutto è rimasto uguale, pensai.
Certo in quel momento la casa sembrava uno di quei grandi magazzini che si vedono nei quartieri industriali di Parigi, ma tutto quello che c’era prima, mi si proiettava davanti agli occhi, illuminato dai raggi del sole primaverile che entravano dalla finestra.
Si creavano dei giochi di luce e ombra, dove prima c’era la lunga scrivania di legno massiccio con i numerosi disegni in carboncino sparsi al di sopra, dove la testiera in ferro battuta aveva lasciato i segni della ruggine, dove, proprio in quel piccolo angolo, una volta c’era la sedia Chesterfield in cuoio marrone, sulla parete, dove, durante la mia infanzia, c’era il grande poster de I Cavalieri dello Zodiaco che presto sarebbe stato sostituito da quello della band dei Rolling Stones.
Le pareti erano di un azzurro cielo bellissimo e ancora intatto.
Ricordo che tormentai mia madre per avere quel colore sulle pareti perché, quando mi spedì in Inghilterra a undici anni, nella casa che diventò la mia per un mese, passavo pomeriggi interi nella stanza dei libri, così l’aveva chiamata l’anziana signora che mi ospitava: si trattava di due camere collegate, una di queste aveva le pareti ricoperte di libri, l’altra, molto più piccola, aveva queste pareti azzurre a ricreare il cielo ed ero talmente assorta dalla tranquillità, dalla chiarezza di quel colore che faticavo anche a leggere, cosa che non succedeva mai, tanta era la attrazione verso le parole.
Dopo tutti i miei sforzi, ricompensati, per anni quelle pareti furono coperte da fotografie.
In bianco e nero, a colori, quadrate, piccole, rettangolari, grandi, che ritraevano paesaggi, città, persone, campagne, luoghi che avevo dovuto lasciare a malincuore e luoghi che avevo imparato ad amare dopo qualche tempo.
Fotografie dei miei ricordi più belli, più profondi, più intimi.
Ricordo bene quel periodo, come non potrei.
Sentii le lacrime in fondo agli occhi e il cuore incominciare a battere più forte, feci un respiro profondo, lasciando che l’aria e la polvere andassero fino in fondo ai polmoni, riempiendoli, poi lasciai andare.
Lo feci tre volte.
Tre era il numero necessario per calmarmi, per riportare il respiro stabile.
Ricordo come, presa dalla rabbia, dall’odio, mi chiusi in camera strappai tutte quelle foto, come le fissai per ore, con le lacrime agli occhi, come le presi tra le mani una a una, come ne strinsi al petto una, la più bella di quel periodo e di sempre, come guardai la persona in quella foto e come continuai a piangere, piangere, finché le lacrime non si esaurirono e mia madre bussò alla porta.
Fu la prima cosa che feci dopo che la voce metallica nella cornetta del telefono nella sala professori, mi diede la notizia più brutta della mia vita, o almeno, di quei giorni che avevo trascorso felice e spensierata convinta che quel momento non sarebbe mai arrivato, ma che, invece, arrivò troppo presto.
Quando morì mia nonna, l’intero peso del mondo mi soppresse, l’aria lasciò definitivamente il mio spazio vitale e la nuvola nera che si creò intorno a me e dentro di me, non faceva altro che perseguitarmi.
Con le dita sfiorai la piccola crepa che si era creata per la botta della porta sbattuta quel giorno.
Non era molto grave e con gli anni avevo imparato a osservarla e a immaginarmela come la crepa dentro di me, la differenza tra di esse: per sistemare quelle sul muro c’era solo bisogno di un po’ di calce o del gesso, per chiudere quella che lentamente mi divorava dall’interno non potevo fare niente di niente, se non accettarne la causa.
Riguardando la parete, sulla quale era appoggiata la scrivania, ricordai perfettamente dove la foto della nonna era posizionata: tra la foto di un tramonto visto da un vigneto nelle Langhe e una foto che mi ritraeva durante la mia prima gara di scrittura, in quarta elementare.
La foto della nonna era in bianco e nero e gliel’avevo scattata una di quei giorni durante il quale mi svegliava la mattina presto, mi portava a fare colazione al bar Moriondo in via Marghera, dove prendevamo una brioche alla crema di pistacchio e un cappuccino, «con tanta schiuma» diceva sempre lei a quel simpatico cameriere che mi sorrideva quando lo ringraziavo e poi mi portava in stazione centrale a prendere il primo treno che partiva tra tutti oppure in giro per Milano, in Brera e nelle vie del Broletto.
Mi diceva sempre che Milano era la sua città, non avrebbe vissuto da nessun’altra parte: nessun altro posto le sarebbe appartenuto come la sua Milano.
Quel giorno, però, fece una pazzia e io insieme a lei, una di quelle pazzie che non si scordano mai: alle 6.45 prendemmo il treno per Firenze.
Scoppiai a ridere da sola ripensando al caos di quella giornata, ai secondi che erano diventati ore: come prese a leggere i quotidiani appena freschi di stampa esposti in edicola, stavamo per perdere il nostro treno, come l’avevo presa per mano, quella sua mano conosciuta, unica, con l’anello di zaffiro che il nonno le aveva regalato per il loro cinquantesimo anniversario di matrimonio che le andava largo e che assumeva il freddo durante quella Milano invernale, quella mano che stringevo da piccola e grazie alla quale non avevo paura di affrontare niente, quell’unica ancora in un mare in burrasca, quell’unica luce nel buio.
L’avevo costretta a correre nonostante la sua età, ma grazie a me non avevamo perso il treno.
Eravamo entrati nella prima carrozza, ma il nostro era la quinta, così le passammo tutte con la gente che osservava quelle matte che ridevano da sole ma insieme, avevamo trovato i nostri posti, o così credevamo, perché tre o quatto fermate dopo, una signora in carne con una pelliccia logora, una lunga collana di perle e un bambinetto, al contrario, troppo magro, biondo con gli occhi verdi sorridenti, aveva reclamato quei posti.
Ricordo come ci siamo alzate, abbiamo controllato i nostri biglietti scoprendo che non solo i posti erano sbagliati, ma anche la carrozza.
Nonostante mia nonna cercasse di mantenere un certo contegno davanti a quella donna che a me sembrava tanto la protagonista femminile di un libro di Simenon, di avere un comportamento informale e diligente, quando il piccolo mi fece una faccia buffa e io scoppiai a ridere, lei mi seguì a ruota.
Per anni ricordammo la faccia della povera signora che, probabilmente, aveva creduto che ci stessimo prendendo gioco di lei, denigrandola per il suo buffo aspetto.
Trovati i nostri posti, ricontrollati i biglietti e aspettate due fermate per confermare le nostre sedute, ci godemmo quelle tre ore di treno, duranti le quali avevo pensato, ripensato e finalmente risposto alla domanda che sempre ci si pone: è più importante la meta o il viaggio?
Senza valigie, senza pesi: libere.
Viaggiare non è non avere radici, è avere voglia di strappare quelle radici, non è stufarsi di un posto, è voler vedere più posti possibili, non è non avere legami, è voler avere legami ovunque, non è scappare, è voglia di conoscere, di sapere, di fuggire dal monotono e dalla quotidianità.
Viaggiare, come respirare, è necessitare di diversivi, cambiamenti, personalità, qualcosa di fondamentale e vitale come l’aria, l’ossigeno.
Imparai che viaggiare significa cogliere l’attimo, proprio come io e la nonna riuscimmo a prendere il treno, come cogliemmo quel primo viaggio senza meta, significa esplorare, infatti per tutto il viaggio disegnai quei paesaggi che scorrevano fuori dal finestrino sporco: passammo dalla città alla campagna, alla pianura per poi ritornare alla città e ancora alla campagna, un passaggio ciclico.
Cambiava il cielo, la persona seduta accanto a me, la velocità del treno, le città, il ritmo del mio cuore, l’aura dei paesaggi, ogni centro metri qualcosa cambiava, ma non la nostra meta e il nostro compagno di viaggio.
Ero catturata dal pensiero che viaggiare è nella natura umana, è ristabilire quell’antico legame indissolubile, è riaccendere quella fiamma dentro agli uomini senza la quale non avremmo scoperto principi fondamentali della nostra cultura.
Pensai a Marco Polo, avendo appena studiato la sua opera sui Tartari, e mi chiesi chi altro avrebbe potuto e voluto scoprire quella popolazione, se non un uomo desideroso di nuovi territori. Solo qualche anno dopo riconobbi le mie osservazioni nello scrittore Jacques François-Anatole Thibault.
Quando arrivammo a Firenze mia nonna non perse tempo, anzi lo trasformò: gli fece assumere una durata maggiore, come se rallentasse l’attimo per goderne al meglio.
Illusione sicuramente, ma in quella giornata apprezzai Firenze più di tutte le altre volte che la visitai.
Notai ogni piccolo particolare dei monumenti che mi sfrecciavano davanti, ogni colore del cielo, ogni singola sfaccettatura dell’accento degli abitanti, tutto quello che la nonna voleva che notassi.
Quando da lontano vide il Ponte Vecchio, e l’espressione che le comparve in viso mi colmò il cuore di felicità. Aveva un sorriso sollevato, realizzato, felice come un bambino che ha appena ricevuto la sua caramella preferita.
Fu proprio su quel Ponte che le scattai quella foto: ci mettemmo al centro, non un passo in più, non un passo in meno, mi fece appoggiare le mani sulla pietra, mi fece chiudere gli occhi e mi fece fare un respiro profondo.
«Respira bimba mia, respira, respira l’aria della città dell’arte eterna».
Aprii gli occhi e la osservai in tutta la sua bellezza, la mia nonna: sotto le lunghe ciglia di quegli occhi marroni, troppo banali secondo lei, vidi una lacrima scappare, correre veloce sulle gote rosate per il trucco e cadere su quelle pietre antiche, così lei lasciò il suo segno a Firenze.
In quel esatto momento prendevo la macchina fotografica in mano e lei si girava verso di me con un sorriso, che catturai per pura casualità, cogliendo la meta di quel viaggio.
Quelle parole mi rimbombarono in testa e mi sembrò che il suono rimbalzasse sulle pareti vuote di quella casa.
Mi scese una lacrima quando alzai le palpebre, un brivido mi scese per tutta la schiena e il caldo dei raggi che entravano mi cullò, mentre nella mia mente e tra i fantasmi di quella casa ripensavo a quel momento.
Lei non amava essere fotografata, anzi mi aveva sempre confessato che lo odiava proprio, ma, con le lacrime agli occhi, mi disse che c’era qualcosa in quella foto, qualcosa che la rendeva bella.
Seduta alla sua scrivania, oggi unico mobile in casa, decisi di utilizzare quella foto per la sua lapide, fu a quella scrivania che inviai la domanda d’iscrizione all’Università Cattolica per studiare giurisprudenza, come avevamo sempre pianificato e fu a quella scrivania che scrissi il discorso per il suo funerale:
Non piangerò, non ho più lacrime. Sono qui oggi per rallegrarmi, non prendetemi per matta non odiavo mia nonna, al contrario, la considero il modello di persona che ho sempre voluto e vorrò sempre essere. Sono qui oggi per pregarvi di ricordarla per la sua vita non per la sua morte. Festeggiamo quello che ci rimarrà sempre, quella lezione di vita che, anche senza il nostro consenso, grazie a lei ha germogliato dentro di noi.
Inizierò con confessarvi la più grande verità che ho appreso da lei, che ho maturato grazie a lei: questo circolo che chiamiamo vita, si ripeterà perché siamo destinati a vivere e morire. Il viaggio e la meta hanno una cosa in comune: le persone che amiamo. Durante i numerosi viaggi che ho fatto con lei, ogni volta mi confessava che era sempre più felice di avermi portato in un altro posto nel mondo, che era riuscita a farmi scoprire qualcosa di nuovo e io solo dopo anni ho capito: sarà sempre la mia compagna di viaggio, con lei e grazie a lei riuscirò a raggiungere tutte le mie mete.
Lei mi ha insegnato che, come un viaggiatore, chi vive sarà il più completo, colui che ha cambiato modo di guardare, di pensare e di vedere mille volte, ma che è colui che ne ha trovato uno proprio.
Fu sempre a quella scrivania che inviai il romanzo su mia nonna a una casa editrice, per ricordarne la vita.
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