Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
11ª edizione - (2008)

Là dove volano gli aquiloni Ispirato al romanzo Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini

Un denso polverio si alzava dalle strade dissestate di Kabul e l'aria era permeata dal richiamo salmodiato del muezzin. La jeep procedeva a fatica inerpicandosi su per i tornanti: dai finestrini velati un paesaggio di morte e desolazione. Molte case erano state bruciate e da alcune saliva ancora un denso fumo nero, segno che l'incendio era stato spento da poco; ai margini delle strade carcasse vuote di animali sembravano decretare la fine definitiva di un paese un tempo glorioso. Il guidatore rallentò e si fermò al posto di blocco: un uomo avvolto in lunghi abiti scuri gli chiese i documenti. Lo guardava fisso negli occhi, con le mani ben salde sul mitra e la lunga barba nera increspata dal vento. Un intenso e penetrante scambio di sguardi e il guidatore ottenne il via libera, dopo avergli fatto scivolare nelle mani una manciata di banconote. Anand osservava attonito quel paesaggio lunare: non riconosceva l'Afghanistan di un tempo e si chiedeva come tutto ciò era potuto accadere. Giocherellava con la barba finta per contenere la rabbia che gli ribolliva nel sangue e guardava la neve sulle alte montagne, unico luogo incontaminato di quella terra martoriata.
 Tutto era cominciato il mese precedente. Era una sera di aprile e dal balcone di casa sua già si avvertiva l'odore protocollare delle rose rampicanti. Al tramonto era suonato il telefono e sua moglie gli aveva passato il ricevitore, dicendo che si trattava di una telefonata importante. Ignaro di quello che lo attendeva, Anand aveva afferrato la cornetta; dall'altra parte una voce fievole, soffocata gli aveva rivelato che a parlare era il suo amico Nazim, desideroso di salutarlo per l'ultima volta prima di essere giustiziato.
 La settimana precedente infatti era stata effettuato un controllo del suo appartamento a Kabul e la squadriglia di Talebani vi aveva trovato diverse bottiglie di alcolici, il cui uso era proibito dalla shari'a e diversi quotidiani filo-occidentali. Nazim era stato portato via, caricato su un furgoncino malmesso e a nulla erano valse le grida disperate di sua moglie Cabila. Da allora non si era più saputo nulla di lui, ma prima dell'esecuzione gli era stata concessa la possibilità di chiamare un familiare e così aveva scelto di salutare per l'ultima volta Anand, il bambino con cui aveva cacciato gli aquiloni. Sì, perché molto tempo prima nel cielo di Kabul volavano gli aquiloni dei bambini spensierati, dando vita a una danza multiforme e incantata dai vividi colori; molto tempo prima le persone passeggiavano per i mercati e nelle sale da tè si suonava musica classica; molto tempo prima gli Afgani sapevano sorridere.
 Tutte queste cose non sfuggirono ad Anand quando sentì la voce roca dell'amico. Sconvolto dalla notizia, gli domandò se era possibile fare qualcosa ma, in cuor suo, conosceva già la risposta: il destino di Nazim era segnato e nessuno poteva opporsi al verdetto della shari'a. Però Anand poteva riscattare Nazim, liberando sua moglie, ostaggio dei Talebani, e restituire così l'onore di cui egli era stato privato.
 Proprio per questo aveva lasciato il Pakistan ed era partito alla volta di Kabul, accompagnato da un autista fidato che lo avrebbe aiutato a varcare il confine. E ora si ritrovava nel mezzo di quel viaggio rischioso, sobbalzando sul sedile posteriore per le continue buche e riflettendo sulla triste fine del suo amico. Ripensava alla prima volta che avevano fatto decollare un aquilone: Nazim lo consigliava su come svolgere il rocchetto e lui guardava fiero il cielo tenendo bel salda la corda, attento agli attacchi degli altri aquiloni. Gli sembrava di sentire ancora le loro risate gioiose, di respirare ancora l'odore delle foglie di tè che quella mattina aleggiava nell'aria. Eppure ora Nazim non c'era più: probabilmente a quest'ora era già stato fucilato e il suo corpo senza vita giaceva abbandonato su una strada, accanto alle altre vittime di un sistema disumano.
 Giunti a Kabul scesero dalla macchina. Il sole era caldo e sembrava succhiare la vita degli Afgani sempre con maggior foga e ingordigia. Le strade erano semideserte e le poche case, che avevano resistito all'invasione russa e alla presa del potere dei talebani, lo fissavano con morbosa insistenza. Anand si sentiva come un turista nel suo stesso paese. Il suo sguardo, alla ricerca di qualche rimando del suo vecchio passato, fu attirato da una figura scura, rasente al muro, che procedeva con il capo chino, incespicando tra le macerie. Dietro la retina che copriva il volto, si celava lo sguardo dimesso di una donna di una bellezza velata e offuscata da una grande sofferenza. Faceva caldo quel giorno eppure quella donna, dietro il largo abito che le ricadeva sino ai piedi, si sentiva protetta, lontano chilometri dalla desolazione di Kabul.
 Anand non poté non pensare a sua moglie, ai suoi occhi neri lucenti e penetranti, liberi di osservare il mondo senza nascondersi dietro a un velo. Si augurava di rivederli, prima o poi, quegli occhi, che per tante notti aveva visto risplendere nel buio della loro camera a Islamabad.

Oh Profeta! Di' alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e che non vengano offese!

Quanto era cambiato il suo paese, vessato dal regime talebano!
 Quali trasformazioni aveva subito il suo popolo in nome di un assurdo fanatismo religioso!
 Anand voleva sapere se anche la piana dove decollavano gli aquiloni era stata cancellata dalla violenza di quel barbaro regime. Chiese al guidatore di accompagnarlo. Giunsero a un promontorio di sabbia e pietre, ultimo baluardo dei suoi ricordi d'infanzia.
 “Salaam alaykum”, li salutò un anziano pastore. “Salama alaykum”, risposero in coro Anand e il suo accompagnatore. Si sedettero su una pietra rovente e da lì osservarono le case abbarbicate di Kabul snodarsi in un dedalo di viuzze. Da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccato dalla violenza e la terra ai loro piedi esalava profumi carnali e lievemente putridi, un denso aroma quasi turpe che ben si adattava alla devastazione generale.
 “Non è più l'Afghanistan di un tempo. Dovremmo tutti fregarcene di quello che dicono quei cani presuntuosi. Non sanno fare altro che recitare a memoria un libro sacro scritto in una lingua che neppure capiscono. Dio ci scampi e liberi l'Afghanistan da questa tirannia!”
 L'accompagnatore rifletteva ad alta voce sulle disgrazie di un paese che ormai aveva la morte sul volto.
 “Gli afgani si ribelleranno; il resto del mondo non resterà a guardare inerte le brutalità che qui vengono compiute e tutto tornerà come prima.” Anand non poteva pensare che il suo paese resistesse a lungo sotto una simile dittatura; non voleva credere che il sacrificio di Nazim, come quello di molti altri suoi compatrioti, fosse stato inane; si augurava un giorno di potersi trasferire di nuovo in Afghanistan e trasmettere ai suoi figli la cultura millenaria di un popolo straordinario. Il guidatore sospirava: guardava ad Anand come a un ragazzino ingenuo, illusosi di poter cambiare il mondo. Si capiva che era stato tanti anni lontano dal suo paese e dunque per lui era ancora lecito serbare una debole speranza.
 Il sole stava tramontando dietro le montagne e dipingeva il loro manto di neve di calde sfumature. La violenza del paesaggio, la crudeltà del clima, la tensione presente nell'aria, facevano delle case di Kabul bellissimi fantasmi muti. Era ora di andare. Tra poco sarebbe scattato il coprifuoco e avrebbero rischiato grosso se non si fossero ritirati. E poi l'indomani lo attendeva un compito difficile: gli era concessa la possibilità di riscattare la morte dell'amico trovando Cabila, sottraendola al terribile destino di tutte le vedove afgane. Nella parte più recondita del suo animo sentiva che ce l'avrebbe fatta, avrebbe trovato Cabila e l'avrebbe portata con sé in Pakistan. Sì, ci sarebbe riuscito.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù....


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010