Cloro, la mia droga
«Marco? Sei tu? Perfetto. Corsia quattro».
Così Marco si avviò verso la sua corsia, la numero quattro.
A diciotto anni era ormai un veterano della sua categoria, nonostante da bambino il suo sogno fosse giocare a calcio per la sua squadra del cuore, l’Inter. Tuttavia, il suo sogno fu interrotto sul nascere da una forma di asma che gli impediva di correre.
Così fu iscritto a un corso di nuoto e, nonostante le difficoltà, era piano piano riuscito a perfezionare la tecnica ed entrare nella squadra di preagonismo, per cui gareggiava oramai da quattro anni.
La sua specialità erano i cinquanta metri a stile libero, e aveva gareggiato in diverse competizioni. Marco era abituato alla sensazione prima di una gara, dunque non si lasciava più sopraffare dalla paura. Nonostante ciò, ogni volta nasceva in lui un’inquietudine strana. In fondo ogni gara era per lui un’occasione per dimostrare a se stesso, agli avversari, al suo allenatore quanto valesse e a che risultato i suoi sforzi lo avessero portato. Aveva paura di fallire, sì, aveva paura che qualcosa andasse storto.
“Basta Marco, calmati” si disse.
Continuava a ripetersi che i rimpianti non servivano a niente. Era ormai tempo di agire. Iniziava quindi a svolgere qualche esercizio di riscaldamento, mentre dentro di sé si ripeteva a memoria la sua gara: tenere le braccia bene unite durante il tuffo, non respirare alla prima bracciata per non perdere velocità e fare attenzione alle virate. Già si immaginava il suo allenatore che dalla tribuna si sbracciava per intimargli di andare più veloce, nonostante Marco non potesse minimamente vederlo o sentirlo. Sì anche perché, e Marco lo sapeva bene, la sua gara sarebbe dovuta durare il meno possibile. Ore e ore di allenamento, per una gara che circa in un minuto si sarebbe conclusa.
A volte persino Marco non si capiva.
Sua mamma gli ripeteva spesso che avrebbe dovuto lasciare da parte il nuoto per fare spazio allo studio. Gli allenamenti serali infatti non erano molto di aiuto, dato che Marco non si allenava più nella piscina vicino a casa dove tutto era cominciato. Dopo l’inizio nella squadra preagonistica e un anno indimenticabile, la sua squadra fu sciolta, dato che per la maggior parte dei suoi compagni di squadra era impossibile continuare a nuotare e contemporaneamente ottenere buoni risultati a scuola.
In quel momento Marco capì che il nuoto non è per niente uno sport individuale. La sua squadra, i compagni che avevano affrontato con lui mille fatiche, erano diventati la sua famiglia. Il suo allenatore, invece, per quanto si lamentasse perché secondo lui Marco non nuotava abbastanza veloce, non aveva mai smesso di credere in lui.
Marco aveva letto una volta che il risultato di un atleta dipende, ovviamente, per il novantacinque percento dall’atleta stesso; vi è tuttavia una piccola percentuale, un cinque percento, che dipende dall’allenatore dell’atleta. Nonostante sia solo una piccola parte, questo cinque percento ha una importanza rilevante; si potrebbe quasi dire che il nuotatore e l’allenatore sono come una cassaforte e la relativa combinazione.
Ciò nonostante, Marco si chiedeva il motivo di tutti questi sacrifici, soprattutto durante gli allenamenti più duri.
Perché rinunciare al riposo, agli amici? Per riuscire a nuotare quattro vasche di fila due decimi di secondo più veloce dell’ultima volta? Andiamo, due decimi di secondo non è neppure la metà del tempo di un battito cardiaco.
Eppure Marco questa vita non la abbandonava. E mai se ne era pentito. Era uno dei pochi disposti a pagare un prezzo molto alto, persino una parte di sé, per quei due decimi di secondo, per dimostrare a sé stesso che quel prezzo non era nulla rispetto all’emozione di toccare quel muretto e vedere un numero più basso sul tabellone accanto a quello della sua corsia. In fondo, lui non se ne faceva nulla di due decimi di secondo, ma era tutto quello che ci stava dietro a fare la differenza.
Lavorare duramente, sopportare lo sforzo, dare sempre il massimo con lo scopo di essere più veloce: questo era ciò che aveva permesso a Marco di crescere, e non lo studio. Aveva imparato a preferire continui miglioramenti rispetto a una statica perfezione. Sapeva che bisogna provare a essere il numero uno, ma mai credersi tale. Mettersi alla prova, giorno dopo giorno e allenamento dopo allenamento, gli aveva fatto ottenere traguardi che mai avrebbe pensato di conquistare. Una volta raggiunto un obiettivo, se ne poneva un altro. Senza paura di sognare troppo in grande; in fondo, i campioni non sono altro che sognatori che hanno avuto il coraggio di mettersi in gioco.
«Siediti pure qua. Quando finisce questa batteria, tocca a te. In bocca al lupo» disse il cronometrista, rivolto a Marco, una volta terminati tutti i controlli.
Ciò significava che Marco aveva a disposizione ancora circa un minuto di attesa per raccogliere le idee, poi sarebbe toccato a lui. Mentre eseguiva gli ultimi esercizi di riscaldamento, Marco era invaso da mille pensieri. Non era il nuoto uno sport contraddittorio? Come ci si poteva sentire così liberi, in uno spazio così limitato come una piscina?
I pensieri di Marco furono però interrotti. Aveva infatti notato che il ragazzo in corsia cinque, probabilmente l’avversario più insidioso, stava tentando di studiarlo.
D’altra parte a Marco era del tutto indifferente, come se non lo vedesse. Il ragazzo in corsia cinque non lo preoccupava per niente, perché Marco conosceva già il suo avversario più forte.
Infatti, per vincere, Marco doveva battere sé stesso. Sapeva che non avrebbe dovuto paragonarsi agli altri: era necessario concentrarsi su sé stessi, perché è impossibile far rallentare gli altri, ma è possibile diventare più veloci.
E questo Marco lo sapeva bene.
Adrenalina, concentrazione, ansia. E un unico obiettivo: toccare la piastra nel minore tempo possibile. Dai il massimo e otterrai il massimo. Una corsa contro il tempo, insomma.
Infatti, una volta arrivato al blocco, si chiudeva come in una bolla e tutto il resto cessava di esistere. In quel momento realizzava che tutti gli schemi preparati in precedenza non sarebbero serviti a niente.
Per questo Marco cercava di costruire un contatto con l’acqua, come se le stesse chiedendo: «Coraggio, amica mia, fammi volare», anche se l’acqua era il principale motivo di litigio con sua mamma.
Secondo lei, tutto “puzzava” di cloro. Lo zaino, l’accappatoio, Marco stesso.
Il punto è che Marco non lo trovava un problema, in effetti per lui non era una puzza. Anzi, quando passava qualche giorno senza nuotare, iniziava a sentirsi a disagio. Gli altri ragazzi usavano sostanze stupefacenti o chissà che altro per sentirsi felici, mentre la droga di Marco era il cloro.
Ogni volta che tornava in piscina dopo qualche giorno di stop, era come tornare a casa dopo una lunga vacanza, era come ricominciare a vivere.
Marco fu riportato alla realtà dallo speaker della manifestazione, che aveva appena finito di elencare tutti i partecipanti alla sua batteria. Subito dopo, il giudice di gara eseguì i famosi tre fischi che per gli atleti significavano portarsi al fianco del blocco. A questi seguì un fischio unico più lungo, e tutti i nuotatori si preparano sul blocco.
In tutta la piscina calò un silenzio di tomba. Tutti sapevano che quella batteria era l’ultima: 50 metri stile libero, categoria seniores. Il vincitore di quella batteria sarebbe stato il vincitore della manifestazione.
«A postooo…» e Marco era lì, con tutta la sua preparazione e la fatica e tutti gli allenamenti che gli erano serviti per arrivare fino a lì «…Via!».
E a quel punto, Marco entrò in acqua lasciandosi guidare dal proprio istinto, lasciando quindi fare al suo corpo ciò che sapeva fare meglio: nuotare.
Quella giornata di gare fu una delle migliori per Marco: vinse la sua gara individuale e assieme ai suoi compagni di squadra ottenne il secondo posto nella staffetta.
Tuttavia questi traguardi erano per Marco del tutto indifferenti, perché lui era consapevole del fatto che finché avrebbe unito sacrificio, determinazione, disciplina e impegno la sua non sarebbe mai stata una sconfitta. Col tempo aveva inoltre imparato che perdere non era arrivare secondi, ma uscire dalla vasca consapevole che avrebbe potuto dare di più.
Comunque Marco non era il classico ragazzo che si lasciava ai festeggiamenti. Il giorno dopo era di nuovo in piscina. Mentre si cambiava negli spogliatoi, si era già prefissato un altro obiettivo. Non importava quanto in alto puntasse – in fondo, obiettivi troppo facili regalano soddisfazioni effimere – e non importava nemmeno se veramente prima o poi fosse riuscito a conseguire i suoi obiettivi, perché lui ce l’avrebbe sempre messa tutta e questa era già una vittoria per lui.
È inutile nasconderlo, il suo sogno più grande era nuotare alle Olimpiadi – e magari battere il suo idolo, Gregorio Paltrinieri.
Marco sapeva che i sogni non sono fatti per essere tenuti in un cassetto assieme a calzini e mutande; per questo non smetteva mai di coltivarlo, non smetteva mai di pensarci nonostante le speranze di realizzarlo fossero quanto mai minime.
Così entrò in acqua e, bracciata dopo bracciata, lasciava che ogni pensiero gli scorresse via, esattamente come l’acqua sulla sua pelle.
Sentiva il battito del suo cuore sott’acqua, e scoppiava di vita: per essere felice, in fondo, gli bastavano un paio di occhialini, un costume e una piscina.
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