Inchiostro
di Gioele Pessina
Finalista
Arrivato all’età di cinquant’anni, iniziò a innestarsi nella sua testa un sentimento a lui estraneo. Aveva paura. Quella paura che intride gli incubi di ogni persona: la paura della morte, di scomparire e di cadere nell’oblio.
Cinquant’anni erano già passati in un batter d’occhio, ma lui non si era mai distinto dalla massa, non aveva combinato niente degno di nota. Quando il suo cuore si sarebbe fermato: chi lo avrebbe pianto? I suoi amici festaioli, che bevevano così tanto da dimenticarsi persino la strada di casa! Cosa avrebbe lasciato ai posteri? Una anonima lapide collocata in uno spiazzo e circondata da centinaia di sue simili.
Doveva escogitare qualcosa, doveva creare qualcosa di grande. Decise così di mettersi a scrivere, con la piena convinzione che avrebbe composto la più grande opera che il mondo avesse mai conosciuto. Il suo capolavoro avrebbe commosso folle, ispirato i giovani e richiamato orde di fanciulle cariche di desiderio a bussare alla sua porta. Il successo era raggiungibile, ne era convinto: sprecava un sacco di tempo che sarebbe bastato impiegare per realizzare questo nobile progetto. Gli era capitato di gettare un occhio sulle opere da tutti osannate e non trovarci niente di speciale. Vi scorgeva solo tante parole ammassate, che persino un bambino avrebbe saputo scrivere. Lui non ne era certo da meno.
Si mise subito all’opera. Improvvisò lo spazio dove concepire la sua opera. Mentre cercava dei fogli, rintanata in un cassetto, trovò la sua autentica penna di grifone, comprata anni prima e mai usata… come se stesse inconsciamente aspettando quell’occasione: quella penna era l’ideale per scrivere, ma necessitava di un inchiostro di egual virtù.
Passò in rassegna tutte le botteghe della città, entrò in ogni negozietto e chiese a ogni commerciante, fino a giungere nei pressi della boscaglia, per cercare l’oggetto, per lui, così prezioso. Lì, in un grosso piazzale erboso vide una carovana arlecchina trainata da una puledra. Il proprietario era un vegliardo con una folta barba, baffi e sopracciglia che coprivano due occhi vispi; sembrava aspettare l’arrivo della primavera mentre boccheggiava da una pipa di avorio. L’uomo, scoraggiato dalle lunghe e vane ricerche, chiese timidamente informazioni su dove trovare del buon inchiostro.
Il vecchio non proferì parola, poggiò la pipa ancora fumante e avvolto in una nube di fumo scomparve nella sua baracca a ruote, provocando vari cigolii. Tornò di soppiatto e porgendogli una boccetta piena di denso liquido nero aggiunse con voce fanciullesca: «È magico!». Quindi rise e gli porse una pacca sulla schiena. Finalmente la sua ricerca era conclusa, ne fu così contento che non volle trattare sul prezzo, non poteva permettersi di sprecare altro tempo, doveva sfruttare questa sua vampata d’ispirazione e con quell’inchiostro magico niente lo avrebbe fermato.
Una volta a casa si recò alla sua postazione, ma passò più di mezzora fissando un foglio bianco e reggendo la piuma zuppa di inchiostro, ormai quasi secco. Non riusciva a scrivere una parola, a immaginarsi una trama, un luogo o semplicemente un personaggio da cui iniziare. Niente. Poggiò la penna, solo un’istante, quel poco che basta per stropicciarsi gli occhi affaticati. Li riaprì, ma subito dovette ripetere il gesto per lo stupore. Sul candore della carta era apparsa una minuscola chiazza nera, dalla quale si diramavano fini e scure linee che sembravano formare la frase:
«Ciao. Come stai?»
L’uomo fissò il foglio con occhi increduli e con il volto sempre più pallido, come carta, rimase fermo senza capire, deglutì più volte esaminando la scritta. Il suo stupore lo portò a sbiascicare una risposta a quella domanda senza voce; subito i rami di inchiostro si diramarono ancora, intrecciando un’altra semplice domanda:
«Sei uno scrittore?»
Era atterrito da quella strana conversazione. Le mani iniziarono a tremargli lievemente mentre indietreggiava d’istinto il busto ancorato inerme alla sedia. Lui non era certo uno scrittore, non ancora. Provò a formulare una risposta negativa che almeno lasciasse trasparire il suo desiderio di diventarlo, ma confuso com’era non riuscì a trovare le parole; scosse semplicemente il capo, con l’intento di far trapelare da quel gesto un timido “sì”.
«Io sono bravo a scrivere. Se vuoi, posso scrivere io per te!»
A questo punto non fece più caso all’assurdità della situazione, era curioso di vedere dove tutto ciò lo avrebbe portato; e così, facendosi coraggio, lo esortò a continuare a scrivere.
In un attimo, l’inchiostro iniziò a prendere vita e a espandersi sul foglio, come rivoli d’acqua che si depositano su una finestra nei giorni di pioggia, scivolando dolcemente lungo il vetro in percorsi che sembrano già scritti. Il bianco lasciò presto spazio al nero, il vuoto si riempì di lettere, sillabe, parole e frasi. Una cascata nera così veloce a comparire che lo stesso sguardo dell’uomo faceva fatica a tenerne il ritmo. Sarebbe bastato questo a rendere magico il momento. Invece, la cosa più sorprendente era il racconto che si stava formando.
All’uomo bastò leggere i primi versi per rimaner rapito dalla passione di quel racconto. Ogni parola sembrava essere stata creata solo per quel momento, ogni singolo segno era un pezzo insostituibile di un mosaico che rispecchiava la massima elevazione dell’intelletto umano; e in quel momento, lui era il solo che lo stesse vivendo. Non poteva smettere di leggere, nessuna parte del suo corpo glielo avrebbe permesso, colmata una pagina si sbrigava a macchiarne un’altra con il prezioso liquido, per scoprirne il continuo. Luoghi fantastici, personaggi così veri e vivi che compivano azioni incredibili, avventure ai confini della realtà e della ragione, sentimenti che tutti noi proviamo ma che nessuno è mai riuscito a descrivere in modo così chiaro da renderteli immediatamente tangibili.
Era tutto perfetto.
Leggeva avidamente ogni lettera che fluiva dinanzi ai suoi occhi, fiumi di parole, cascate di frasi, straripare di pagine. Arrivato a un punto doveva subito leggere la maiuscola a capo e ciò che ne seguiva. Più leggeva e più voleva continuare a immergersi in quella indescrivibile meraviglia. Fin quando i suoi occhi, divenuti insostenibilmente pesanti, si chiusero del tutto, lasciando il suo corpo privo di sensi.
Quando si risvegliò, la sua guancia era appiccicata al foglio, in quella che sembrava essere una pozza d’inchiostro che ormai impregnava anche gran parte della scrivania. Goccioline del nero liquido ticchettavano impattando col pavimento scandendo l’inarrestabile scorrere del tempo. Ci volle un po’ prima che riuscisse ad alzare il suo volto, anch’esso color petrolio. Sui fogli non vi era nemmeno traccia di una parola. Di quell’effimero sogno era rimasta solo una vitrea boccetta vuota e confuse macchie d’inchiostro.
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