Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
20ª edizione - (2017)

Lo sparo
di Emma Bertolè
Finalista

Leggere: parola dall’etimologia complessa. Deriva dal latino legere, che trova affinità nel greco λέγω (lego), con il significato di “raccogliere”.
Leggere è quindi “raccogliere con l’occhio le parole dai caratteri scritti”.

Ci sarebbe stato uno sparo.
Per lei non sarebbe stato uno sparo qualunque. Sarebbe stato lo sparo.
Quello che avrebbe cambiato qualcosa, magari tutto; quello che l’avrebbe resa nuovamente libera.
Aveva deciso di non aspettare oltre: non avrebbe perso l’occasione che le si presentava. Lo avrebbe eliminato, lasciato indietro, stracciato come raccontavano si usava fare con le vecchie foto sbiadite che non si vogliono mettere nell’album dei momenti da ricordare.
Gli avrebbe dimostrato che poteva cavarsela: sarebbe andata avanti anche da sola, senza di lui, perché era lei la vera campionessa. Non ne poteva più delle frasi di rimprovero che costellavano le ore trascorse insieme, del tono arrogante da ricattatore con cui la scherniva, delle allusioni da ingoiare in silenzio. Sarebbe stata una soluzione radicale, dolorosa, che avrebbe pagato cara, ma era l’unica che poteva risolvere la situazione smantellando ogni equilibrio.
Si sarebbe sentita leggera come l’aria che il vento da nord aveva portato durante la notte da montagne lontane chilometri, e che lei riusciva a distinguere con le narici avide ed esperte. La primavera era alle porte e con il profumo delle gemme che iniziavano a gonfiarsi, tutto presto avrebbe odorato di nuovo; come il suo destino irreversibile di cui voleva sentirsi l’artefice, almeno per una volta.
Sarebbe andata fino in fondo.
Il rumore del colpo di pistola giunse alle sue orecchie.
I muscoli erano tesi e caldi, la mente fredda e calma. Bastò un piccolo gesto, un colpetto deciso del pollice e la cordicella si ruppe. Una variazione nel respiro le confermò di averlo colto di sorpresa.
Contrasse i muscoli, li distese. Sentì tutto il suo corpo reagire: si mise a correre.
Focalizzò la concentrazione sulla luce di cui si poteva fidare: il riverbero dei pannelli a bordo campo la aiutava, non si fece confondere dalla voce. Poi continuò ascoltando ciò che le diceva l’istinto, certa di conoscere ogni segmento della pista, mentre i muscoli ripetevano i movimenti che avevano memorizzato: le gambe cominciarono a curvare al momento giusto. Si fidò del suo corpo che compiva i gesti mentre la mente ne immaginava gli scenari. La creatività era il suo punto forte. La chiave che le permetteva di vivere interpretando il mondo di nebbia che la circondava.
L’eco dello sparo mi rimbalza nella mente.
Percepisco l’aria che entra ed esce dai polmoni, il cuore che pulsa ritmico, e una forza repressa che si libera.
Mi sembra di galleggiare, sospesa in una sensazione mai provata. Forse quella stessa che molti grandi autori hanno cercato di descrivere, pochi uomini sono riusciti a provare e io mai. Sempre immobilizzata, sottomessa.
Ora invece mi sento ubriaca della mia follia, unica responsabile di errori e successi. Ma, con l’euforia, sento crescere anche un sentimento acre: so che senza di lui non ci saranno più letture.
Ricordo ancora come ci siamo conosciuti.
Mi facevo portare spesso in biblioteca dalla zia, e lì restavo sola per ore tenendo un qualche libro tra le mani, ne conoscevo le posizioni a memoria. Sentivo i risolini e gli sguardi stupidi di chi poteva vedere e sprecava tutta quella grazia ricevuta per farsi gioco di me. Ma a me non importava: nelle pagine cercavo gli odori che avevo sentito e, con quegli odori, ritornavano i sapori e le forme dei racconti che da piccola mi avevano letto. Altre volte sceglievo un volume a caso e provavo a immaginarne il contenuto lasciandomi ispirare dallo spessore, dal formato, dal peso, dalla ruvidità della carta, dal fruscio che faceva sfogliandolo.
Un giorno, senza presentazioni, un ragazzo si avvicinò e cominciò a leggere ad alta voce dalla pagina che avevo aperto e scorrevo con la mano: «… non conosceva altri luoghi e tantomeno il modo di andarvi. Così per lui l’entrata della tana era una parete: una parete di luce. Quello che il sole era per chi stava all’aperto, era per lui la parete di luce del suo mondo: essa lo attirava come una candela attira una falena”.
Zanna Bianca, terzo capitolo: il mio passaggio preferito. Quante volte, durante l’infanzia, lo avevo sentito dalla voce di parenti e amici e ora, quel nuovo timbro, profondo e regolare come una carezza, si adattava perfettamente al pelo morbido e caldo del cucciolo.
Fu quello l’inizio di un’infinita serie di pomeriggi passati in biblioteca a prendere libri dagli scaffali per letture ad alta voce. Io volevo leggere tutto quello che la biblioteca offriva e lui, instancabile, non si faceva pregare, disposto a dare vita a qualsiasi testo. Per me non erano libri belli o brutti, coinvolgenti o noiosi, intriganti o lenti, ma tutti ugualmente rappresentavano la libertà di poter leggere, o la schiavitù di non poterlo fare.
Non c’erano solo i romanzi, quelli dalla letteratura per ragazzi, ma anche saggi di storia, racconti di viaggi in paesi lontani, biografie di scienziati ed esploratori famosi, e pure Come crescere le piante in appartamento, o Divertirsi riciclando. Per me ogni libro rappresentava un cofanetto prezioso che l’autore aveva provveduto a riempire con la propria esperienza e chiunque lo avesse letto, avrebbe potuto assimilarne l’essenza, e sarebbe stato poi capace, come per incanto, di riprodurne l’arte.
Fu così, quasi per gioco, che accettammo la sfida di un certo Calcaterra che aveva fatto della corsa la sua vita, e iniziammo a correre anche noi. Semplicemente cominciammo ad allenarci mettendo in pratica i consigli che erano stati scritti, e scoprimmo entrambi sensazioni mai provate prima. Ci iscrivemmo a un’associazione sportiva e, su consiglio di un allenatore che ci vide, provammo ad allenarci sulla velocità e le brevi distanze. Sui 200 e i 400 metri rivelai presto di avere delle capacità.
Ci insegnarono ad avere lo stesso passo, a muoverci in sincronia con le braccia, legati da una cordicella tenuta al polso: io gareggiavo e lui sostituiva i miei occhi facendomi da guida.
Col passare del tempo e i primi risultati di merito, però, qualcosa cambiò. Quando correvo, io sentivo i miei riflessi diventare vigili come quelli del predatore durante la caccia o come la stessa preda che previene il pericolo. Non vedevo, ma percepivo rumori e odori tutto intorno come mai ero stata capace prima, e i piedi… i piedi sentivano la pista senza uscire dal tracciato. Per lui invece, quello che contava non era più l’emozione della corsa, ma riuscire a salire sul podio, incensarsi degli applausi, mettere in mostra le medaglie. Così divenne sempre più fanatico, autoritario, quasi violento, costringendomi ad allenamenti via via più serrati, con il ricatto di fare tacere in qualsiasi momento i miei libri.
Ho resistito fin troppo, non era più possibile andare avanti così: sebbene leggere sia per me vivere, con lui è diventato impossibile. Ho cercato di farglielo capire, ma non mi ha mai voluto ascoltare. Adesso, all’improvviso, con quello sparo l’ho costretto ad aprire gli occhi.
Ormai lo sparo era qualcosa di lontano e indistinto.
La scarpa toccava il tartan e il piede diventava pista; poi la spinta verso l’alto, ed era il vuoto intorno. Terra e cielo si alternavano: a ogni passo diventava terra, a ogni slancio diventava cielo. Nulla aveva più importanza, nessun confine: in lei c’era l’equilibrio del ghepardo e la velocità dell’antilope, la potenza del falco, lo scatto della lepre. Poi anche terra e cielo si fusero e lei diventò vento… Vento: «il respiro di Dio…». Si sentiva Dio.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010