Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
20ª edizione - (2017)

Qualcosa di umano
di Francesca Giustini
Terzo premio

Chiudo con cura la porta dietro di me, attenta a non far emettere ai cardini arrugginiti nemmeno il minimo rumore. Nessuno mi deve sentire.
Entro e do uno sguardo alla culla davanti a me.
Mi fermo: Adolf Hitler.
L’assassino.
È poco più di un neonato, adesso. Dorme pacifico nel lettino davanti ai miei occhi. Estraggo la pistola dalla tasca. È silenziata, nessuno si sveglierà sentendo il colpo. Spero nemmeno Adolf. La canna della pistola striscia fra le coperte e si punta sulla piccola testa ancora pulsante del bimbo.
È il momento.
Ho passato mesi e mesi a progettare la mia macchina, quell’aggeggio maledetto che non voleva saperne di funzionare. Mi ricordo ancora quando, ragazzina, piangevo davanti al libro di Storia: lettere, parole, frasi, periodi fatti di ingiustizia e sopraffazione. Il libro era una raccolta di delitti cuciti insieme dalla rilegatura di copertina. Dopo quella lettura non sono più stata la stessa. Allora, era nato in me il desiderio di vendetta, forte, bruciante. Allora mi era venuta l’idea di costruire la macchina, un sistema che mi permettesse di viaggiare indietro nel tempo e di cancellare quell’orrore, quell’enorme macchia di sangue sul volto dell’umanità.
Per sempre.
Adesso è il momento. Punto la pistola con più decisione. Accarezzo il grilletto e mi metto in attesa del colpo.
Aspetto.
Le mie mani tremano.
Dio, come tremano…
Mi scuotono il braccio, la pistola. I miei occhi cadono su quelli limpidi del bambino. Anche il mio cuore cede.
E se… Se si potesse salvare?
Se potessi portarlo via, lontano dalla Germania?
Se ci fosse… ancora qualcosa di umano in lui?
Che pensieri strani. Che idee assurde, sciocche…
Il bimbo davanti a me si muove piano sotto la coperta. Agita i piedini e mi guarda. Sì. Deve esserci qualcosa di umano in lui.
All’improvviso penso a una fuga silenziosa e immediata: se lo prendo in braccio, piangerà? No, non lo farà… A ogni modo salterò veloce oltre la finestra stringendolo forte, nessuno mi vedrà, nessuno, stanno tutti dormendo… E allora finalmente fuori dall’edificio, lontano, lontano da una vita sbagliata… Forse crescerà felice fra tanti?
Sarà uno di quei ragazzini che giocano a rincorrersi nei prati? Sarà un adulto anonimo, uno dei tanti omini grigi nella folla?
Rimango ferma per qualche istante, con lo sguardo fisso sul pavimento.
No.
La sua mente è corrotta. È inutile sperare che un immondo assassino come lui si possa salvare da sé stesso. E io no, non posso perdonare. Non posso perdonare delitti così atroci. Non posso perdonare colui che ha ucciso milioni di uomini con la tranquillità di chi fa il suo dovere. La ragazzina arrabbiata riprende possesso dei miei pensieri. Ora sono come allora, disperata e sconvolta davanti al male. Mi ricordo del libro, delle pagine bianche tinte di sangue. Sangue che grida vendetta. La rabbia e la nausea mi torcono lo stomaco. È ora che le atroci sofferenze di milioni di uomini, donne, bambini vengano vendicate. È ora che lui paghi.
Stringo i denti. Alzo gli occhi. Sollevo la pistola.
La canna nera e lucida in un attimo fa il suo breve viaggio dal pavimento alla culla. Respiro forte. Sento i polmoni andare a fuoco. Mi preparo a sparare.
In quel momento il neonato guarda la pistola.
Punto con più decisione l’arma contro l’assassino… no, il bambino! La sua manina si spalanca piano e sfiora la superficie della pistola. Un sorriso illumina il suo volto. Le sue dita. Le sue dita no, dannazione!
Abbasso la testa.
Hitler, togli quel braccio. Maledetto bastardo ti prego togli quel braccio.
Mi ritrovo a stringere le palpebre per arginare le lacrime.
Lacrime…
Perché sto piangendo? Guardo di nuovo il bambino. Ha il visetto tondo e pulito. Due occhi cristallini. Mi guarda. Non ha paura, non sa cosa sto per fare. Le labbra minuscole si spalancano. Sorride. Adolf Hitler mi sorride.
Le mie labbra si rilassano. Non pensavo che Hitler fosse capace di sorridere. Le manine percorrono goffamente il calcio della pistola.
Sfiorano il mio pollice. Tremo. Ha lo stesso tocco di un bambino qualsiasi.
Abbasso l’arma. Questo bimbo… È il pazzo in divisa che urla il suo saluto?
È l’esaltato che sbuffa e suda durante le sue orazioni davanti alla folla adorante?
È il freddo criminale che idea passo dopo passo lo sterminio di interi popoli?
Un bimbo che sorride in una culla? Sono sue le colpe di quel mostro?
Penso di nuovo se sia possibile un’alternativa.
Un’altra vita. Un’altra vita…
Un debole raggio di luce illumina la piastrella bianca sulla quale sono posati i miei occhi.
L’alba…
L’alba!
E io sono ancora qui. Quel dannato assassino mi sta facendo perdere troppo tempo. Viscido e subdolo anche da bambino…
Impugno la pistola, la stringo. Impreco contro la mia debolezza, spargo benzina sull’odio.
Delle voci. Dei passi nel corridoio. Non sono sola! Non posso rimanere un attimo di più. Basta. Facciamola finita. È ora di uccidere questo mostro, di cancellare per sempre quel capitolo del libro di Storia, tanto atroce, tanto doloroso.
Prendo la mira. Accarezzo il grilletto e mi metto in attesa del colpo.
Aspetto.
Tremano ancora le mani. Dio, come tremano.
Mi scuotono il braccio, la pistola.
I miei occhi cadono su quelli del bambino.
Di nuovo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010