Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
20ª edizione - (2017)

Lavinia
di Nina Del Corona
Secondo premio

Racconto ispirato a La Metamorfosi di Franz Kafka


Lavinia era partita in autunno.
Le foglie giallastre si accumulavano sul davanzale della finestra da cui vedevo suo padre che caricava le sue cose in macchina. Saltellando giù dai gradini, mi aveva sorriso con quel suo sorriso un po’ sbieco. Un colpo secco e aveva già lanciato il suo zaino sul sedile della vecchia Ford rossa. Un altro colpo e aveva già chiuso la portiera.
Nessuno sapeva che fine avesse fatto in America, a quale scuola fosse andata, in quale città. Noi del quartiere favoleggiavamo fosse finita in una scuola privata femminile sperduta tra le praterie del Kansas, portata via da casa sua come Dorothy nel mondo di Oz.
E poi un giorno era tornata. Era tornata con i suoi sedici anni e il rosa tra i capelli corvini. Troppo, troppo per i suoi, per noi, rimasti indietro con in mano ancora le polaroid sbiadite della bambina con i codini.
Si vestiva con dei collant neri a righe gialle e blu e l’immancabile gonna nera con le Dr. Martens, ascoltava le canzoni dei film anni ’50 e sapeva a memoria tutte le canzoni dei Beatles. Una volta aveva rubato il motorino del fratello per andare al mercatino delle pulci da cui aveva riportato tutta felice un vecchio giradischi. La vedevo seduta sul bordo del suo divano fucsia con i dischi dei Rolling Stones e la Divina Commedia in mano. Ovunque nella sua stanza, o perlomeno fin dove vedevo io attraverso la finestra, i libri erano accatastati in piccole, ordinate colonnine per terra in modo da formare dei sentierini che attraversavano la camera.
Veniva a scuola con gli stivali neri da cowboy che aveva trovato in soffitta. Si sedeva al suo banco, tirava fuori Kafka dalla tasca del giaccone e leggeva fino all’inizio delle lezioni. A volte anche durante le lezioni. I prof cercavano di ignorarla. Perché lei non si fermava alle date imparate a memoria. Chiedeva di tutto a tutti. Che musica ascoltava Carlo Magno al posto dei Daft Punk. Se fosse comodo il celebre abito rosso di Dante. E poi c’erano gli intervalli. La vedevamo in cortile che cantava i Beatles dal ramo della vecchia magnolia nell’angolo. Nessuno le diceva nulla. Leggeva sempre lo stesso libro, ogni giorno. Era a pezzi, cadevano pagine e mancava la copertina. Lei non le raccoglieva mai.
Sembrava talmente assorta nel suo mondo che noi con i piedi a terra non esistevamo. Sembrava non accorgersi che nessuno le parlava, nessuno le era amico. Ma ci guardava con gli occhi che urlavano che non doveva essere qui. Che doveva essere altrove, lontano da questo posto banale. Noi, con le cuffiette con Ed Sheeran nelle orecchie, non capivamo. E come avremmo potuto?
Quando c’era lei c’era la musica. Che fossero I suoi vecchi dischi in vinile o la sua voce che si insinuava tra i corridoi polverosi della scuola con Bob Dylan. Cantava sempre, ovunque, a chiunque. Non voleva applausi, non le servivano. Il silenzio era il suo applauso, il nulla l’acclamazione del pubblico.
Ci eravamo abituati, a ignorarla. O meglio, loro. Io ancora le parlavo, cercavo di entrare nella bolla in cui viveva. La fissavo per ore dalla mia finestra. Facevamo la stessa strada per andare a scuola. Allora le chiedevo dell’America, di Kafka. La ascoltavo, anche se alcune delle sue idee mi facevano ribrezzo. Gli altri mi guardavano orripilati. Persino io stesso non capivo niente di quello che diceva Lavinia. Non volevo ammettere a me stesso che aveva ragione lei, che quello che diceva del suo libro mi colpiva più di quanto dessi a vedere.
Ai miei occhi, spuntarono dai suoi capelli corvini delle sottili, orrende antenne. Le sue braccia, sei, diventarono scheletriche, sempre più scure. Il suo zaino, alla luce invernale del mattino, mi sembrò lucido, tondeggiante, quasi una corazza. Non riuscivo più a vedere la sua ciocca rosa senza guardare la testa dell’enorme insetto che stava diventando.
Faceva paura, era disgustosa. Era… diversa, una parola dal sapore acre, minacciosa, quasi incombesse pericolosa sulla rassicurante banalità di ogni giorno.
Mi allontanai anch’io. Prendevo il giro lungo per andare a scuola, attraverso il parco, anche se l’erba bagnata mi sporcava le Nike. Negavo di averle mai parlato. La sera chiudevo la finestra e le tende per non sentire la sua musica.
E poi un giorno se ne andò. Nessuno la vide più. Forse tornò in America. I suoi non sembravano turbati più di tanto. Anzi, mi pareva d’intravvedere nei loro occhi un’ombra di sollievo. Smantellarono camera sua. Ci misero qualche cyclette e un tapis roulant. Sopra al poster dei Queen misero un brutto quadro, un paesaggio con qualche cavallo, il tipo di quadro che trovi nelle pizzerie da sabato sera. A scuola i professori quasi non commentarono la sua assenza. Si limitarono a sbarrare con la biro nera il suo nome sul registro. Noi ragazzi riprendemmo il nostro rito di essere tutti maledettamente uguali. In pochi si ricordarono, tempo dopo, che ci fosse stata Lavinia a scuola.
Aveva esaurito l’ossigeno di questo minuscolo buco di paese, voleva cambiare aria, o forse musica. O forse voleva risparmiare ai genitori la sua presenza tremendamente ingombrante perché semplicemente diversa. La sera in cui se ne andò trovai il suo adorato libretto appoggiato alla finestra sporca della mia camera. Aveva piegato l’angolo di una pagina per segnarla. Dentro, con una matita aveva sottolineato appena un passaggio, talmente leggermente che quasi non si notava. Come il suo, di passaggio.
«Come poteva essere proprio una bestia se la musica lo afferrava a tal punto?»
E capii che Lavinia ci aveva capiti tutti.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010