Ricordo
Sento un soffio d’aria fredda sulla pelle. Il naso rosso, le guance colorite. Fa freddo, questo me lo ricordo. Forse per questo mi è venuto in mente di entrare in quella mostra d’arte.
Mi guardo intorno, e ascolto. Una volta ho letto che il miglior modo per scrivere è «ascoltare bene», e probabilmente è così. Ho sempre preferito ascoltare piuttosto che parlare, ma tanti che mi conoscono direbbero che non è vero. Eppure nel mio parlare ininterrotto spesso mi chiudo a muraglia, e mi isolo. Qualche volte mi allontano, semplicemente, e mi chiudo in me stessa.
Cammino da sola in questo momento, nel freddo inverno. Dovrei tornare a casa, lo so, ma temporeggio, in attesa. Cosa aspetto non lo so neanche io. Forse qualcosa che mi permetta di uscire dalla solita routine, dai miei schemi. So già che fra poco mi avvierò a prendere il solito tram, l’unico che mi può portare fino a casa, in questa grande abbondanza di mezzi. Almeno così ho una scusa per i miei ritardi: senza quel tram non mi resta che camminare. Intanto mi guardo intorno, osservo la gente che mi circonda. Sono tutti così frenetici, dagli sguardi assenti. Così sarà stato il freddo (anelavo fare una pausa in un posto caldo), e in parte sarà stata anche la curiosità, ma di fronte a quel cartello mi sono fermata.
«Madonna Esterhazy, visita gratuita», diceva la scritta.
Non ero mai andata a una mostra da sola prima d’ora, e certo, il fatto che fosse gratuita ha fatto molto, ma mi piace pensare di essere entrata soprattutto per amore dell’arte.
È quasi ora di pranzo, ho fame, ma posso aspettare. La coda è breve. Passano pochi istanti, continuo a restare ferma fuori, in attesa, con la brezza invernale che mi solletica il collo. Mi chiudo meglio nella giacca e infilo in tasca le mani screpolate. Ho gli occhi stanchi, ma vale la pena aspettare.
È quasi una pausa quest’attesa, dal tragitto di quaranta minuti che dovrò fare per arrivare a casa.
Quanto vorrei essere nella mia calda stanza ora, magari con una bella pizza.
Nonostante tutto, aspetto imperterrita quei dieci minuti di coda, che ancora mi separano dalla visita gratuita. I minuti mi sembrano interminabili. Non mi è mai piaciuto aspettare, nemmeno al ristorante. Ma oggi come oggi affermo e ribadisco che ne è valsa la pena. Rifarei la coda al freddo, e la rifarei mille volte, se dovessi ritrovarmi di nuovo lì, quello stesso giorno, a quella stessa ora.
Spesso mi domando cosa cambierei delle mie scelte se potessi tornare indietro nel tempo, e sicuramente questa non è una di quelle. Ma come dice un noto detto: «Quel che è fatto, è fatto», semplicemente si va avanti.
Ma adesso io torno indietro, ritorno a quel momento, per riviverlo ancora una volta, come se fosse oggi. È proprio strana la memoria. Involontariamente, da una sensazione, una parola, un oggetto, tornano alla mente i ricordi più disparati, che siano recenti o meno. Così, come fosse oggi, io ricordo ancora quel giorno di dicembre. È bastato un attimo per riportarmelo alla memoria.
La visita durò non più di dieci minuti, ma la guida era veramente brava. Le opere erano solamente tre, ma meno opere ci sono e più opere si possono veramente assorbire, secondo me. Mi concentro, nel tentativo di ricordarmi quei momenti, le mie sensazioni. Cosa provavo allora? Chiudo gli occhi, e provo a ripensare ai quadri. Quel senso di rapimento e estasi, che provavo davanti a essi, era addolcito dalla luce soffusa e dalla calda voce della guida. Ripenso alla sua voce chiara, senza stonature, e mi perdo nella ridotta grandezza dei quadri.
«Ridotta» perché, per quanto l’immagine possa lasciare spazio all’immaginazione, le opere sono di dimensioni abbastanza piccole, ma dei veri e propri capolavori. La guida si soffermò sulla Madonna Esterhazy di Raffaello, vera protagonista della mostra, ma anche sulla Vergine delle Rocce del Borghetto di Francesco Melzi, che ho impressa in mente tuttora. Passò, invece, più velocemente davanti alla Madonna con il Bambino di Giovanni Antonio Boltraffio, frettolosa di lasciare spazio ai nuovi visitatori. Eppure ora che ripenso a quell’ultimo quadro esso non mi è passato inosservato. La luminosità del quadro, la luce e la dolcezza nei volti mi lasciò ammirata, un attimo col fiato sospeso, nel tentativo di riuscire a cogliere solo un’infinitesima parte del suo valore. Ma l’opera mi permise anche di divagare e allontanarmi da essa, riportandomi in un altro tempo, in un altro luogo.
Mi trovo in Russia, e di mostre oramai ne ho viste altre. C’è lo stesso freddo, benché qui sia estate. Non ho mai amato tanto come ora il clima mediterraneo. A San Pietroburgo, a fine agosto, l’aria è ancora frizzante, con brevi folate di vento. Ho una giacca pesante, anche se secondo mia madre ovviamente sono poco coperta. Spero non si metta a piovere.
Non penso che ci sia davvero qualcuno che ami camminare sotto la pioggia, a parte il protagonista di Midnight in Paris di Woody Allen. L’ho visto in inglese di recente, a scuola, ma probabilmente neanche quello sarà servito a migliorare la mia padronanza della lingua. Forse sono più portata per il russo. In ogni caso, russo o inglese, i miei tentativi di comunicazione a San Pietroburgo erano tutti abbastanza scarsi, e, il più delle volte, fallivano miseramente.
Così, in una giornata estiva russa, rallegrata dal bicchierino di vodka che lì a pranzo era d’obbligo, visitai l’Ermitage. La struttura, vista solo dall’esterno, toglie il respiro.
Tutto il paesaggio, sul lungofiume, ha una vista meravigliosa sulla Neva, e lascia incantati.
Fresche raffiche di vento mi colpiscono il volto, svegliandomi dal torpore. Anche i colori, che caratterizzano i palazzi sono colori freddi, che danno un senso di regale austerità. Non per niente si chiama Palazzo d’Inverno, dopotutto.
Una volta entrati, i saloni e i corridoi immensi dell’Ermitage sono da capogiro, di un’eleganza e una raffinatezza sfrenata. Ma la collezione di opere d’arte è il suo punto forte. È immensa, vastissima.
Girarla tutta in un pomeriggio, o in una giornata sola, è umanamente impossibile. Probabilmente, in una mattinata, non mi è stato possibile vedere neanche un quarto delle opere della sua collezione.
La visita, oltre al gran numero dei capolavori, è resa ancora più difficile dai troppi visitatori. Non si poteva stare troppo tempo di fronte a un’opera o si rischiava il linciaggio. C’era una vera e proprio ressa. Più mi guardavo intorno e più, in tutta quella bellezza, faticavo a farmi spazio. Venivo schiacciata. E più mi allontanavo, in cerca di quadri isolati, più venivo raggiunta dalla massa, e lo detestavo. Eppure, nonostante il fastidio della folla, il caldo dentro al museo, un quadro lo ricordo ancora, perfettamente, come se l’avessi visto ieri.
Era estremamente piccolo, ma molto affollato. C’era addirittura la coda davanti a esso. Sebbene spesso mi faccia intimorire dalle file e sia impaziente, anche quella volta ho aspettato, cercando però di svincolare più avanti. Fu così che vidi la Madonna Litta. Le stesse figure nitide, dai colori accesi, e la stessa dolcezza, quasi malinconica, sul volto della Madonna con il Bambino, che avevo visto alla mia prima mostra, a Milano.
Amo richiamare alla mente i ricordi, mi piace perdermi in essi, e lasciarmi andare, guardare un oggetto e ricordarmi viaggi, eventi passati. Vagare con la mente dove non posso essere fisicamente.
Allora così potrei trovarmi ovunque, realizzare ogni mio sogno, ogni mia aspirazione.
Potrei essere a bordo della nave che fa il giro del mondo, e non qui, in una stanza, a pensare a quanto dovrò studiare per la maturità, anzi, a quanto dovrei ancora studiare per domani. Mi ritrovo sempre all’ultimo a fare le cose, tendo a perdere tempo, ma è umano.
Riapro gli occhi. Ho ancora il libro La coscienza di Zeno in mano.
Il tepore della stanza mi ha quasi fatto addormentare, e ho lasciato che il libero flusso di pensieri scorresse nella mia mente. Ho dato voce, come Zeno, alla mia coscienza, senza un termine cronologico, e sono uscita dai miei schemi. Sento un lontano suono di campane, e un leggero prurito. È tardi, ho lasciato che la mia mente vagasse per più di un’ora.
Ora però basta, lascio andare il Cinquecento di Raffaello e torno nel mio secolo. Sento che è decisamente la scelta migliore.
Raffaello non finì il quadro della Madonna Esterhazy, benché non fosse grande, facile da concludere con poche pennellate e da consegnare a degli acquirenti. Si ipotizza che Raffaello volesse tenere questo quadro per sé, come se fosse stata una pagina del suo diario intimo, come se fosse stato un momento importante, testimone della sua vita.
Così, come Raffaello, lascio forse non veramente concluso questo scritto, custode dei miei ricordi più disordinati.
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