D’attesa si vive
Anche quella sera Gustave non mangiò. La fame ogni tanto lo solleticava, ma il frigorifero era vuoto, fatta eccezione per uno spicchio di formaggio dall’odore ambiguo e dall’età incerta che sua madre probabilmente aveva dimenticato lì prima di uscire. Passò due ore con gli spavaldi riccioli biondi incollati al cuscino sgualcito della sua branda, incastrando gli occhi cristallini fra le linee d’inchiostro di 20000 leghe sotto i mari. E gli pareva davvero di trovarvisi, nelle profondità marine, visti i cavalloni d’aria gelida che disordinavano la stanzetta. Quando spingeva lo sguardo nell’infinità di quelle pagine Gustave arricciava dolcemente il naso e un abbozzo di sorriso colorava il suo viso candido di fanciullo. Gli occhi erano quelli di sua madre, dicevano. Vitrei, guizzanti. Due scogli cobalto persi in un mare di lentiggini. Una bellezza magnetica possedeva quel ragazzo cencioso e scheletrico.
Voltò pagina, l’ennesima. E come sempre, nel farlo, avvicinò lentamente il mento alla carta ingiallita dal tempo, per assaporarne l’odore. Era il suo rito, il suo piacere. Ogni pagina aveva un’identità propria; la dodici era diversa dalla quarantacinque, la sessantasette dalla centotredici.Ognuna con le sue sfumature di significato.
Quel povero scricciolo si perdeva in quell’universo. Si faceva cullare, protetto dall’infelicità malinconica che pioveva sul suo capo a ogni sorgere del Sole. La sua unica compagnia era la solitudine. E il libro. Il suo unico libro.
«Quindi ti fermi anche per stasera?»
«Sì Jo, grazie, lo sai che ne ho bisogno. Grazie»
Ad Anita servivano davvero quei pochi spiccioli in più. Lavorava ininterrottamente oramai. Da mezzogiorno fino alle prime luci dell’alba, con una o due brevi pause di mezzo, durante le quali non sapeva mai dove andare, cosa mangiare. Due occhiaie bluastre la accompagnavano ovunque, mascherando la sua giovane età. Ma bastava una delle sue violente pennellate di trucco ed era di nuovo desiderabile. Non lasciava mai che Jo la vedesse struccata, forse per paura, forse per vergogna. Quando due sere prima era venuto a comunicarle la sua intenzione di licenziarla, Anita era ripiombata nella situazione ancestrale di angoscia da cui con infinite difficoltà si era quasi definitivamente divincolata. Solo le lacrime l’avevano salvata. Jo sosteneva di dover pensare ai suoi affari, soprattutto in quel momento in cui i clienti scarseggiavano e non consumavano.
«Sei una mela marcia», era solito dirle. E lei si sentiva davvero una mela marcia, inutile e fuori luogo. Anche per il fatto che Jo, quello stravagante e criptico quarantenne che le aveva dato un’occasione, la pagava miseramente. Ma comunque più di quanto lei rendesse, di questo erano sicuri entrambi e per questo Anita gli era grata. Infinitamente grata.
«Vado a mangiare qualcosa, torno tra dieci minuti esatti» promise Anita.
«E cosa pensi di mangiare in dieci minuti? Poi An, lo sappiamo entrambi che non hai un soldo in tasca. Se vuoi le altre hanno ordinato qualcosa, sono di là nei camerini, metto io la tua parte».
La ragazza non seppe come ringraziarlo. La metteva un po’ a disagio il fatto che le colleghe non l’avessero invitata, ma non mangiava dalla sera prima e l’idea di una cena pagata la stuzzicava, così accettò.
Chiudendo il libro a notte inoltrata, Gustave esplose in un ordinaria crisi di panico. Serrò i denti e si strinse nelle coperte sgualcite. Solo il suo respiro affannato graffiava il silenzio di quella camera, di quel disordine eterno. Succedeva ogni volta. All’arrivare all’ultimo sorso di quel libro un senso di incompiutezza tentava di soffocarlo. Era una sensazione che si ripresentava sempre uguale, un mostro che gli si parava davanti infinite volte, quasi a volergli ribadire che oltre quella pagina il mondo per lui non aveva riservato nulla. Che vissuta anche quell’ultima distrazione l’angoscia si sarebbe rimpossessata di lui.
A Gustave pareva di rivivere il medesimo giorno, lo stesso dolore, da quindici anni. Si destava la mattina quando le prime luci filtravano ribelli dalle tende che a fatica provavano a contenerle. Per un minuto non si muoveva. Fantasticava con le forme di ovatta che i raggi dorati del Sole proiettavano fluendo attraverso i buchi delle tende impolverate. Fissava lo sguardo su quelle brillanti e gioiose macchie e riusciva a scorgervi il capitano Nemo nella sua fierezza. Per un attimo sentiva lo sciabordio dell’acqua salata giocherellare lungo i fianchi maestosi del Nautilus, pronto a salpare. In quei soli momenti un’ingenua felicità lo accarezzava, dolce e malinconica come il suono di un carillon. Si sentiva parte di qualcosa. Gli sembrava che soltanto in quegli istanti compassionevoli gli fosse permesso di vivere. Istanti che nell’affanno di quel momento erano dannatamente lontani.
Silenziose due lacrime bagnarono il cuscino rattoppato. Altre due le seguirono svelte, correndo mano nella mano dagli zigomi di Gustave agli spigoli della sua boccuccia increspata. Il ragazzo affondò il viso nel guanciale, fino a non respirare, e cercò nell’odore stantio che lo avvolse un abbraccio familiare, un ricordo di momenti più sereni. Con la lingua assaporò le lacrime amare che inzuppavano la tela della federa e finalmente sentì i muscoli rilassarsi. Una consistente parte della tensione che lo ingabbiava si dissolse e una tranquillità nuova si mischiò al sapore di salsedine. Con leggerezza Gustave si distese sfruttando tutta l’ampiezza della branda, la quale in questa aveva forse il suo unico pregio, e liberò la mente da qualsiasi pensiero. Sentiva solo il rumore del silenzio pungergli i timpani e le onde del mare infrangerglisi sulla punta della lingua. Mentre quelle sensazioni intonavano una dolce ninna nanna di sottofondo, Gustave si assopì.
Nel locale si affievolirono le luci degli ultimi faretti, fino a che Jo, al centro del palco, si trovò invischiato nell’oscurità. A quel punto sollevò le mani ossute e battendole produsse un suono appena percettibile, ma abbastanza vibrante da azionare Jimmy e Molly. Due fasci di luce fendettero netti il buio denso e si incontrarono sul viso scuro dell’uomo che prontamente provvedette a difendersi gli occhi sollevando le braccia. Jo tirò un sospiro di sollievo. Negli ultimi giorni alcuni spettacoli erano saltati a causa del malfunzionamento dei due proiettori e i brillanti occhi di bue che in quel momento lo accecavano odoravano di liberazione. Almeno quella serata si sarebbe svolta regolarmente. Significava soldi in entrata, parecchi soldi, e si poteva percepire l’eccitazione di Jo che invano si impegnava a non mostrarla nei suoi movimenti effeminati. Quando il tecnico assunto da quest’ultimo aveva opinato per sostituire i due fari, il proprietario dell’Horney Moon non ne aveva voluto sapere. Il giorno dopo l’elettricista di fiducia del locale si era ritrovato disoccupato, e Jo aveva incaricato il suo segretario di cercarne uno nuovo, specificando che fosse più competente. Niente lo avrebbe spinto a rottamare Jimmy e Molly, erano gli unici reduci del locale al tempo della gestione di suo padre. Erano gli unici oggetti che lo riportavano a lui.
Nel frattempo, mentre si preparava puntigliosamente per la serata, passandosi il rossetto bordeaux cupo sulle labbra carnose, Anita si mise ad ascoltare i discorsi delle colleghe. La aiutava a distrarsi. Dio solo sapeva quanto odiasse il suo lavoro, se lavoro si potesse chiamare quel dimenare senza pudore il fondoschiena per un pubblico di mezzi uomini con la bava alla bocca. Nella stanza affianco le altre cinguettavano fastidiosamente, già pronte a uscire tronfie dalle quinte e deliziare la platea, ma Anita tardava. Pensava ai motivi che la obbligavano a svendere la sua immagine, a suo figlio, a quando avrebbe affondato le dita affusolate nei suoi capelli potendo sentirsi finalmente orgogliosa di ciò che aveva fatto. Per la millesima volta da quando le avevano assegnato quel camerino spoglio si convinse, non senza difficoltà, a recitare la sua parte dignitosamente. Sistemò le calze e infilò i tacchi smaltati. Guardandosi allo specchio le sembrò di non vedersi, sotterrata sotto un trucco eccessivo e dei vestiti che mai avrebbe pensato e sperato di riempire. Quella sorta di umiliazione non gliela ripagava nessuno, se non suo figlio. Non gli applausi, che comunque poche volte per lei scrosciavano, non gli sguardi stregati e rapaci degli spettatori. Solo il sorriso lucente della sua creaturina seduta davanti a un pasto caldo che lei avrebbe potuto con quella fatica immensa comprare. Anita inspirò, chiuse gli occhi di zaffiro e li riaprì immediatamente. Esprimevano convinzione, null’altro. Prese un piccolo ritaglio di carta, su cui apparivano parole incomprensibili scarabocchiate da un bambino, se lo assicurò con cura nel reggiseno e aspettò che venisse il suo momento.
«Tocca a te» sentenziò Jo sottovoce qualche minuto dopo, sporgendo la folta chioma afro dallo stipite della porta.
Gustave si svegliò presto, dovevano essere le sei o le sette, pensò osservando le lancette immobili dell’orologio che da anni si rifiutava di fare il suo dovere. Un cielo plumbeo copriva la città e nascondeva il Sole. Sul pavimento non c’erano macchie di luce, la pioggia feriva i vetri delle piccole finestre, ma nessuna smorfia di delusione comparve sul volto del ragazzo. Al contrario, un sorriso raggiante gli illuminò il viso, gonfiando appena le guance scarne e rosate. Gustave schizzò fuori dalle coperte, liberando una nuvola di polvere che si dissolse non appena vi passò in mezzo sgambettando. Aprì l’armadio e con gesti scattanti estrasse l’abito migliore che aveva, l’unico che non viveva di cuciture improvvisate. Indossò maglietta e pantaloni in tutta fretta, con un sorriso vivo come accessorio, poi arrotolò le maniche fino ai gomiti, per non dare a vedere quanto fossero lunghe e adulte per un ragazzino gracile come lui e si strinse i pantaloni all’altezza dell’ombelico. Li fissò con la stringa di una vecchia scarpa che conservava in tasca per l’occasione e, dopo vari tentativi, riuscì a domare i riccioli esuberanti, ingabbiandoli in un basco di feltro grigiastro.
Uscì di casa a passo spedito, senza neppure sciacquarsi il viso e con residui di sonno come bagaglio. Lo sbattere della porta si perse nel suono vibrante delle campane che suonavano le sette e mezzo. Era in perfetto orario, ma correva. Ansimava, ma continuava a saltare da un marciapiede all’altro, spensierato come non era mai stato. Non si sarebbe annoiato quel giorno, non avrebbe pianto, o dormito. Non avrebbe nemmeno fatto visita a Nemo, che lo aspettava fiducioso poggiato sul comodino. Aspettava quel giorno da un anno.
«Lo sai che non mi piace discutere di queste cose alla fine della serata, ma dammi due motivi buoni per cui dovrei lasciarti un giorno libero e puoi andare» sbottò Jo, puntando con lo sguardo ai nuvoloni severi che non davano cenni di tregua.
«Non parliamo di un giorno intero, ma solo…».
«Ei, guarda che scherzo, vai pure. Stai un po’ con lui» concluse lui prima che Anita potesse terminare la frase.
Anita lo ringraziò, come faceva infinite volte. Lo ringraziava per qualsiasi cosa, ma le pareva che fosse giusto così. Entrò in camerino e si svestì lanciando abiti ovunque. Provò a ripulirsi la faccia inzuppando di acetone un pezzetto di carta. Era pallida, assonnata. Decisa. Inforcò un paio di occhiali da sole per coprire le occhiaie evidenti, di quelli che gli erano stati dati in dotazione e che gli era stato detto di non portare fuori dal locale. Si riavvolse nei suoi abiti morbidi e sgattaiolò fuori dall’Horney Moon come un fantasma. L’aria calda e umida del mattino le pizzicò il naso e un pizzico di felicità le colorò il viso. Le campane suonarono le sette e mezzo.
C’era quasi, oramai la vedeva. Al di là dell’incrocio, fumava. Probabilmente aveva chiesto una sigaretta a un passante che si era sciolto nei suoi occhi penetranti, Gustave sapeva che lo faceva spesso. Nell’attesa infinita che il semaforo si vestisse di verde il ragazzo si mise a sbracciare e con la vocina stridula attirò la sua attenzione.
«Mamma!».
Anita riconobbe subito il gracchiare amorevolmente fastidioso del figlio e dopo aver gettato la sigaretta con un movimento goffo si avvicinò al ciglio della strada. Voleva abbracciarlo, baciarlo. Sapeva che per lui quello era un giorno speciale, sapeva che era venuto per augurarle buon compleanno.
Non gliel’aveva mai augurato però Gustave, un buon compleanno. E non si erano neanche rintanati nella trattoria economica che li aspettava dietro l’angolo e che a loro piaceva tanto, quel giorno. Lo sapeva Anita che non era colpa sua. Lo sapeva che può capitare, che un incosciente ubriaco si metta alla guida. Ma non doveva succedere a lui. A lui no. Gustave non lo meritava. Ancora lo vedeva sorridere, sdraiarsi sul letto e isolarsi nella sua corazza di pagine. E sorridere ancora. E poi leggere e stropicciarsi gli occhi. Lo avrebbe aspettato Nemo, ancora su quel comodino. Non sarebbero salpati senza di lui, a costo di sfidare l’eternità di un attimo. Un attimo fatale per la vita di una madre. Per il senso di questa. Per la vita di un povero ragazzo che solo a lei sarebbe mancato.
Ma quanto, quanto.
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