Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

La svolta

Sono le 5:00, mi alzo e indosso la mia divisa.
Prima di uscire guardo mia moglie.
Inizia una nuova giornata. Anche oggi sarà grazie a me se alcune persone potranno continuare a vivere, per almeno un paio di giorni in più.
Ormai è un po’ che ci penso, a questi ebrei.
Io, personalmente, preferirei morire subito, ed è ciò che dovrebbero fare anche loro.
Oggi devo controllare la fabbrica di armi, per vedere che non ci siano furbi, i quali faranno subito la fine che si meritano.
Sono quasi davanti al cancello del campo e noto subito che siamo ancora in pochi, un paio di guardie davanti al cancello, e una decina nella prima parte del campo. Gli ebrei sono ancora nelle capanne.
Arrivo al cancello e scambio un saluto con le guardie di turno, le quali stanno ridendo e scherzando. Mi chiedo come facciano a essere così tranquilli e sereni, pur essendo a conoscenza di ciò che fanno. Vorrei specificare che non sto dicendo di sentirmi in colpa per il fatto di ammazzare ogni giorno centinaia di ebrei, ma, di certo, preferirei fare altro nella vita.
Sto attraversando il campo per andare a buttare giù dal letto tutti quei lazzaroni che oggi devono lavorare in fabbrica. Vedo già Frank, guardia del mio stesso turno, che ha incominciato a entrare in un paio di capanne. Entro nella prima: che odore terribile! Sicuramente qualcuno stanotte ci ha risparmiato del lavoro, morendo da solo. Fortunatamente non tocca a me controllare. Certi sono già svegli, probabilmente non dormono mai, ma non è un mio problema.
Comincio a dire, in tono alto e brusco, di scendere dalle brande e muoversi a venire in fabbrica. Nessuno osa rispondere, solo colpi di tosse.
Finite tutte le baracche, sono ormai le 6:00 di mattina, sta già sorgendo l’alba e la giornata è lunga.
Mi dirigo verso la fabbrica, situata vicino il blocco 24. Lì sono sempre in piedi presto a lavorare.
Ogni volta che passo da lì, noto sempre quel bambino dagli occhi quasi ciechi, con i capelli rasati, come tutti gli altri. È malato e si nota, ma lo vedo sempre lavorare, pur essendo molto piccolo. Non credo sappia parlare.
Arrivo in fabbrica e mi avvisano che mi hanno spostato al blocco 24, così ci torno.
Io e i miei colleghi iniziamo a controllare che tutti stiano lavorando.
Passo di fianco a un gruppo di bambini e ragazzi. Noto le loro facce: alcune disperate, altre ormai spente e senza speranza ed emozioni. Questi piccoli ebrei stanno trasportando macigni più grandi di loro, con le loro braccette ossute. Mi chiedo proprio come facciano.
Ed eccolo ancora lì, quel bambino. Ha molti segni viola in faccia, è stato sicuramente picchiato dal mio collega. Non riesco a capire perché quel bambino attiri sempre la mia attenzione: è pur sempre un ebreo come gli altri.
Me ne torno a casa a cenare con mia moglie e mio figlio di cinque anni. Quella notte ho pensato a mio figlio e al piccolo ebreo, con la faccia pestata. Da lì, mi sono accorto della somiglianza tra i due, tra mio figlio e un ebreo. So che è una stupidaggine ciò che sto pensando, ma voglio salvare la vita a quel bambino.
Il giorno seguente mi dirigo al blocco 24 e inizio a cercarlo. Non c’è da nessuna parte; noto il gruppo di ragazzi, ma lui non c’è.
Cerco in tutte le baracche, finché non lo vedo. Lì, in una branda. È accucciato, come se si fosse messo tra le braccia di qualcuno. È morto.
Da quel giorno sono cambiato. Non voglio più lavorare in quel campo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010