Cinque passi, e un sorso
Spasmi.
Rumore.
Scintille.
Schiuma.
È questo il mare.
Me ne sono accorto soltanto quando sono entrato nel quadro di Caspar David Friedrich, esposto alla mostra cittadina di cui, di solito, non me n’era mai importato nulla.
Ero uscito di prima mattina, come di routine, con la compagnia del mio solo bastone, e mi ero incamminato per le gelide strade della mia amata Amburgo.
Era meravigliosa immersa in quella nebbia sottile, che ti bagna dolcemente le labbra e i capelli, che ti parla di cose che nessuno sa.
Mi piaceva molto uscire quand’era ancora buio, per poi veder sorgere il sole con la sua arroganza e la sua luce, che ogni cosa avvolge e cattura, come falene. Mi piaceva vedere la mia Amburgo svegliarsi e parlare la sua meravigliosa lingua, fatta di grovigli duri ed eleganti, augurandosi il buon giorno.
Camminavo e bevevo il mio alcolico amico rum, abbagliato da tutta quella luce e da tutta quella vita.
Passai davanti al solito panettiere dall’odore croccante, dal fiorista, con i suoi colori radiosi e l’odore sprigionato dalle sue creature, al bar dell’angolo, con il profumo dei chicchi macinati dalla macchina per il caffè. Bevvi un altro sorso amaro, e continuai la mia passeggiata tranquilla, tra le strade, senza dover far nulla.
In cima alla città, come se la dominasse, il museo d’arte, sempre addobbato con quadri e statue perfettamente mute, dal mio punto di vista, ma che invece sembravano parlare e gridare, considerando la lunga coda che ogni mattina si formava per ascoltarli. Egocentrici.
Bevvi un altro sorso, molto lungo questa volta, e il liquido mi corrose per qualche secondo la gola, e poi colpì il petto, lasciandomi, poi, solo l’amaro in bocca.
Salii piano la collina; era invasa da un odore strano, nuovo. Profumava di schiuma del mare.
Continuai e, una volta raggiunta la cima, mi ritrovai davanti alla solita coda all’ingresso.
Forse per curiosità, forse per noia, mi misi in fila anche io. Volevo vedere cosa ci fosse di così tanto bello in quei maledetti disegni appesi. Un altro sorso.
Durante la breve attesa fuori dal museo, mi accorsi che esso era l’unico edificio a non essere avvolto dalla nebbia; che Dio abbia dimenticato di spruzzarne un po’anche su di lui?
Pacato, il sole non si degnava di sorgere, tutto avvolto in quella nebbia finissima, che lo cullava, lasciandolo intravedere di rado.
Dopo essere entrato non guardai nessuno dei quadri appesi, e mi misi a sedere su una di quelle poltrone morbide, di velluto, poste ai lati di ogni stanza. Non riuscivo a capacitarmi del perché fossi entrato. Mi capitava spesso di avere dei conflitti con me stesso. Un altro sorso.
Non so con certezza quanto tempo stetti seduto su quella poltrona, era così comoda e così rossa, mi faceva impazzire; peccato che fosse stata condannata a vivere la sua vita-da-poltrona in quel museo così noioso.
Mi dispiaceva lasciarla, nessuno si sarebbe mai più seduto su di essa.
Bevvi ancora una lunga sorsata e mi alzai, intenzionato ad andarmene il prima possibile.
Uscii da ogni stanza come una furia, tra i flash delle macchine fotografiche e i vari dipinti. Mi sentivo troppo in soggezione in tutti quegli sguardi e quei silenzi.
Finalmente l’ultima stanza, ero esausto. Solo dieci passi e sarei stato fuori da quella tristezza e da quella malinconia che mi opprimeva, ostruendomi le vene dalla circolazione del sangue. Il perché? Non so spiegarmelo nemmeno io.
Cinque passi, e un sorso.
Poi il mio sguardo si posò sul quadro appeso alla sinistra, e ci caddi dentro.
Il viandante sul mare di nebbia, di Caspar David Friedrich. 98,4 x 74,8 cm, olio su tela.
Sprofondai in quel mare agitato, nella sua potenza, nelle sue onde color niente. Tirava una leggera brezza che sapeva di sabbia e di schiuma.
Mi arrampicai verso la cima, sullo scoglio più alto, sopra a questo mare, con la mia lunga giacca nera, le mie scarpe opache e il mio bastone; avevo persino un altro po’di rum. Lo bevvi.
Salii, ancora più su, fin quando non riuscii a raggiungerla, la cima, e mi misi in piedi, affondando il bastone nello scoglio.
Ora ero io il viandante sul mare di nebbia.
Una distesa d’acqua immensa, che si schianta e si riforma lungo il pendio del mio scoglio. Creatura viva, che urla e stramazza, canta e ride, scroscia e strabocca.
Mi sentii pieno, pieno di vita nuova, pieno di quel mare.
Anch’esso era avvolto dalla nebbia, ma non quella di Amburgo, mia adorata città, ma una nebbia sottile, come un lenzuolo, che lo ricopriva dolcemente e lo rassicurava, come una mamma con il suo bambino.
Mi ha sempre fatto paura il mare, pensare alla sua vastità, alla sua potenza, a tutta quella vita; ma in quell’istante non sentivo altro che me stesso pieno e grato a Dio di avermi dato un amico così vivo.
Il vento continuava a soffiare folle su di noi; ci scompigliava i capelli, i miei erano un po’invecchiati. Li faceva danzare dolcemente, insieme al mare e alla mia mente.
Guardavo il mio amico mare, un oceano mare, da lontano ma mi sentivo così forte e incredibilmente vicino a lui; mi toccava le scarpe con la sua schiuma. Mi toccava l’anima.
C’erano altri scogli come quello su cui ero io, che spuntavano quando il mio mare si ritirava, e scomparivano quando tornava ad attaccare con la sua violenza; li sommergeva. Forse stava facendo così anche con me.
Lieve, sopra di noi, il cielo si confondeva con il mare. Era colorato di un candido azzurro, come quello delle camerette dei bambini, con qualche sfumatura di bianco e rosa, tenui, appena accentuati. Qualche nuvola leggera lo distraeva.
In lontananza qualche montagna, che la nebbia avvolgeva in tutta la loro immensità.
Ero sopra a tutto, sopra allo scoglio, sopra al mare, sopra alla nebbia, sopra a me stesso.
In un giorno come questo, dolce mio amico, vieni e portami via, con le tue onde, con il tuo odore, con la tua schiuma. Vieni e portami via. Fammi diventare creatura viva, come lo sei tu.
Distruggimi e ricomponimi come fai con le tue onde, dammi la vita.
Non sono mai stato così vivo come te.
Questo è un mare che cura, che infiamma, che ride, che culla.
Dolce mio mare, fidati di me, sono il tuo viandante sulla tua nebbia.
Rimarrò incastrato qui per sempre, dentro di te.
Dolce mio mare, tu mi hai salvato, mi hai salvato dalla vita, da me stesso. Stai con me in ogni respiro.
Buio.
Rumore.
Schiuma.
Vita.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni