Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

Sera

Ho assunto il ruolo del mitico Bogart nei panni del detective Marlowe, o Sam Spade all’inseguimento del Falcone Maltese. Pronto a svelare tutti i misteri. Seguirò la mia pista fino alla risoluzione finale, a costo di finire tre metri sotto terra in una bara di mogano.
Proprio quando credi di essere piombato nel più freddo degli orrori, scopri di poter scendere ancora più in basso.
Come posso ammutolire la suadente vocina dentro la mia testa secondo la quale adesso ancor più di prima la mia vendetta è finalmente giustificabile sotto qualsiasi morale?
Riscatto, più che vendetta. Forse voglio semplicemente dimostrare a tutti e a nessuno tutto ciò che da anni ho tenuto dentro: sospetti nutriti verso chiunque potesse essere collegato all’omicidio di mia moglie e mia figlia. Credo in una pista che non ho ancora trovato, a qualcosa che non so nemmeno se esista davvero, ma mi fido del mio istinto tanto quanto sono diffidente verso la persona che vedo nello specchio del bagno ogni notte.
Alcune volte, quando meno me l’aspetto, sale feroce dentro di me un fortissimo senso di malinconia. Non proprio malinconia, forse è tristezza, o irrequietezza: un’accresciuta percezione delle cose.
Qualcosa di irrisolto, nascosto tra le fibre dei miei muscoli, tra le pieghe della mia anima. Tra i graffi e dentro le crepe profonde del mio cuore avvelenato, marcio, consumato e inutilizzabile. Reso così dal tempo, dalle situazioni che questo porta con sé, dalle persone.
E questo qualcosa di primordiale e dimenticato che sale dentro di me, avanza senza pietà, senza tirarsi indietro. Non ha paura dell’uomo che sono, non teme la mia reazione, non trema davanti ai miei pugni, al mio sguardo immobile, vitreo.
È vuoto a perdere, un abisso infinito, uno scontro alla pari tra tenebrosi e putridi recessi di sogni falliti e desideri scheggiati; malsani riflessi di un vetro in frantumi, uno specchio distorto.
Credo in me stesso e, mio malgrado, nego agli altri di essere salvato, liberato dal dolore che dentro di me brucia ogni sera. Vorrei lasciarmi andare, e confesso di averci provato svariate volte affidandomi a cocktail di antidolorifici e alcol serviti con un 9 mm caricato nella canna della mia pistola d’ordinanza infilata con isterica tristezza nella mia bocca.
Stringevo i denti e tendevo i muscoli in un volto spaventoso, un ghigno sardonico.
Niente, nessun colpo veniva mai esploso. Nessun pazzo suicida veniva trovato morto nel suo appartamento al 44 di… non mi ricordo nemmeno più dove abito.
Come fai a tirare le fila di una vecchia vita? A stringere i fili che scorrono tra le cuciture della persona che sei?
Come fai ad andare avanti quando nel tuo cuore inizi a capire che non puoi tornare indietro? Quando comprendi che ci sono momenti che il tempo non può accomodare, ferite profonde che lasciano segni indelebili nella tua anima, sulla tua pelle.
La verità è che desidero risolvere il caso, il mio caso: chi in realtà sono, chi ha ucciso la mia famiglia e rovinato la mia vita portando via la loro.
Ma da tempo ho perso la strada, non dormo da un milione di anni e mi sento senza energie.
Tiro avanti da una settimana con ciambelle avariate e birra, entrambe valide aiutanti per alimentare la follia che mi brucia il cervello.
Non ricordo l’ultima volta che ho visto il sole. Sono in condizioni di lutto perpetuo.
Aspetto che venga sera, quando scende l’oscurità New York si trasforma in qualcosa di diverso, come una vecchia canzone di Sinatra.
Piove a dirotto, ma nonostante questo esco ricoperto dal mio cappotto beige e seguito da un alone di malinconica armonia scandita da ritmici passi, come i martelletti del mio pianoforte. Mi fermo spesso sul suo sgabello, appoggio violente le mie dita sulla tastiera. Suono la mia tristezza con tasti di rabbia, decompongo il mio dolore con spartiti di frustrazione. Delirio, e oltre questo trovo una quiete insperata, immeritata ma della quale però ho un profondo bisogno.
Mi prendo del tempo per pensare, vago senza meta nella tempesta. Non c’è fretta, so cosa devo fare.
Del tempo per far crescere la rabbia e la speranza. La grinta con la quale azzannare con un fiero morso da molossoide la mia pista e non lasciarmela sfuggire.
Torno a casa e mi tolgo il cappotto completamente fradicio. Lo appendo all’attaccapanni e vado in cucina.
Mi apro una birra, accendo una sigaretta e tra il fumoso ambiente che viene a crearsi guardo nel vuoto, seduto su una sedia laccata, penso.
Mento a me stesso dicendo che è tutto finito. No, io sono ancora vivo. La mia famiglia, no.
Il dramma di quando si vuole qualcosa è la paura di perderla, o di non riuscire mai ad averla.
Concludo che pensare rende deboli.
Forse dormire mi farebbe bene, ma nei sogni sono impotente contro un fantasma invisibile che aleggia sul mio corpo. La mia famiglia che mi guarda, i loro volti che bruciano, divorati da fiamme biforcute.
Se rimango sveglio, invece, posso sperare in qualcosa di migliore. Una fine, un nuovo inizio se mi va bene. Qualcosa di positivo. Pagherei qualsiasi prezzo per avere un po’ di felicità.
No. Non merito di cavarmela con così poco, non esistono liete fini.
Vado in bagno, appoggio i palmi sulla fredda ceramica del lavandino e pianto i miei occhi in quelli dell’immagine che con un volto poco familiare mi fissa di riflesso.
Non c’è scelta, niente. Una linea dritta.
L’illusione arriva in seguito, quando ti chiedi “Perché io?”, “E se magari…?”, quando ti guardi alle spalle e vedi dei rami, come un bonsai sfondato o un fulmine biforcuto.
Se facessi una scelta diversa non saresti lo stesso tu, sarebbe qualcun altro a guardarsi indietro e a porsi domande di tutt’altro tipo.
Colpisco con violenza lo specchio, lunghe crepe si diramano sulla sua superficie e sulla mia mano che presto inizia a sanguinare. Non ci faccio caso, torno a fissare la mia immagine, ora più distorta di prima.
Apice frastagliato di un cerchio imperfetto.
“Avanti Michael, vuoi restare qui, con gli occhi socchiusi, in attesa che il sangue defluisca dal corpo? O vuoi sgattaiolare fuori da questo bagno, da questa casa, aiutare le persone che ami e impedire che il fuoco si propaghi ulteriormente?”
I miei pensieri urlano agitati nella mia testa, all’esterno regna tiranno un assordante silenzio, di quelli che ti entrano nelle ossa e vibrano potenti nelle vene.
Silenzi che ti scuotono, atoni momenti di elegante frustrazione. Panico e sudore.
Mi guardo la mano destra, sanguina sulla sinistra e insieme riversano quel mare rosso nel lavandino del bagno.
Mi sento male. Ingoio una manciata di antidolorifici e mi fascio la mano.
Vado nel mio studio, mi siedo alla scrivania e tiro fuori per l’ennesima volta tutti i fascicoli, i dossier e le informazioni che sono riuscito a raccogliere dal giorno in cui persi la mia famiglia. Indiziati, nomi sospetti, prove, luoghi, indirizzi e appunti scarabocchiati una volta su un libretto di un teatro, un’altra sul retro di una busta giallo ocra.
Ricomincio, riprendo il viaggio verso la verità, verso il colpevole, guidato da una strana voglia. Rotta quasi obbligata e scandita dal rumore della pioggia sui vetri delle mie finestre.
Sono stanco di questa vita, stanco di non arrivare a capo di niente, stanco di tutti.
Ma ci ragiono, cinque minuti di puro ragionamento. I «se» sono il marchio dei falliti, si va avanti con i «nonostante», ecco la conclusione.
Non importa quante volte sono ancora destinato ancora a cadere, o quanti proiettili mi devo ancora prendere. Non lotto per me ma per la mia famiglia.
Siamo nati per soffrire, morire per le cose alle quali teniamo. Per amore, per le giuste cause.
Tutto ciò ne vale la pena? Dire di no sarebbe una bugia.
Da detective ho imparato una cosa: alcune volte sei fortunato. Altre volte succede qualcosa di buono, qualcosa che non penseresti di meritare nemmeno in un milione di anni.
Qualcosa che ti dà una ragione per andare avanti.
Lucie, nel mio caso.


»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni

Copyright © 1999 - Comitato per Sofia - Tutti i diritti riservati.
Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010