La rete
Polonia.
Campo di concentramento di Auschwitz.
Luglio 1944.
Ero, era, eravamo, erano… più nulla.
Ed ero lì…
In quella parte di campo dove potevo per pochi minuti vivere il mio idillio quotidiano lontano da parole urlate senza motivo delle quali ne capivo forse la metà, lontano da quegli sguardi persi, non molto diversi dal mio e dove finalmente potevo riposare.
Ed era lì…
Il giorno dopo, come sempre, mi ero ritagliato un po’ di tempo per riposare e immaginare sempre nuovi giochi, e lui era lì, dall’altra parte della rete. Mi fissava. Era così simile a me. Riconoscevo, riflessa in quel bambino, la mia stessa figura dei tempi nei quali avevo ricordi poco nitidi: la camicia un po’ dentro e fuori dai pantaloni, le scarpe con le punte consumate, i capelli più lunghi di come ormai ero abituato a portare e negli occhi un guizzo di ilarità.
Ed eravamo lì…
Dopo una settimana ero abituato a trascorrere quello stralcio di giornata con lui che puntualmente si faceva trovare nello stesso posto.
Con il passare dei giorni mi accorgevo sempre più di come eravamo somiglianti.
Oltre a essere entrambi bambini, ci assomigliavamo anche fisicamente: i vuoti lasciati dai denti da latte che cadevano, lo stesso sguardo intenso, la stessa corporatura asciutta.
Ci saremmo assomigliati anche se ci fossimo impersonati negli omini di un disegno che mi regalò. Ricordo che era uno, uno dei tanti che dovetti abbandonare in balia del tempo sotto una catasta di legna.
Avevamo anche preferenze comuni: adoravamo giocare, prediligevamo una montagna di dolci appena sfornati al posto di un pranzo salutare, amavamo gli abbracci della mamma, fare il bagno al fiume e inventare sempre nuove avventure.
Un unico problema non ci permetteva di essere insieme i protagonisti delle storie che inventavamo: la rete.
E anche lei era lì…
Era alta, con del filo spinato, non ci consentiva di divertirci liberamente quando lui portava la palla, imponente e irremovibile creava un distacco tra noi. Non la capivo. Non ne comprendevo l’utilità e nemmeno perché fosse piena di spine di ferro che risplendevano al sole. Faceva paura. Un signore che dormiva a un palmo da me, dopo numerose domande, mi disse che era essenziale per tenere «noi ebrei» lontani dagli altri, quelli normali. Quello che diceva era strano e mi risultava difficile comprendere, sia perché le parole uscivano con amarezza dalla bocca di quell’uomo che sembrava anziano sia perché io, che ero soprannominato «Shmuel il piccolo ebreo», un’espressione che, anche se semplice, mi faceva sentire importante come «Augusto… l’imperatore di Roma», dovevo portare un pigiama sporco invece di una camicia, dovevo lavorare invece che giocare a palla, sognare la montagna di dolci ma anche un pasto completo e salutare. Perché dovevo sopportare un paio di scarpe ridotte a suola, che più che creare vesciche non facevano, al posto di un paio di scarpe comode e resistenti? Ma la domanda che mi angosciava di più era perché io che ero «Shmuel il piccolo ebreo» non potevo stare dalla stessa parte della rete dove stava lui che era semplicemente Bruno?
Forse non eravamo del tutto simili, probabilmente era solo una mia convinzione. Così le somiglianze tra noi diventavano differenze e nella mia mente erano lì… impersonate dalla rete.
Era lì… sola.
Ricordo quando giocavano, ricordo le loro risate soffocate per non farsi notare dagli aguzzini. Era bella la loro amicizia, pura e innocente, senza pregiudizi. Riuscivano per la prima volta dopo tanto tempo a mettere da parte il mio ruolo meschino. È tanto che non sono più lì… ma io rimango, a portare sulle spalle il grave peso dei pensieri altrui: l’opportunismo, l’ignoranza e la crudeltà. E sono sempre lì, immobile e ancorata, io… la rete.
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