Respiri di memoria nell’eco della tormenta
da un percorso di studio di diversi testi e documenti in preparazione al Giorno della Memoria
Okay, stai calma. Prendi un respiro. Ora tocca a te. Andrà tutto bene, non sono qui per giudicarti. Devi solo raccontare. Non trasmettere troppo odio o lo prenderanno male, odio che hai tenuto dentro per tutto questo tempo. Non raccontare degli incubi, quelli che fai ogni notte, svegliandoti urlante. Sii oggettiva, distaccata e chiara.
Devono sapere, devono rendersi conto.
Devono sapere che, tra il 1939 e il 1945, circa sei milioni di ebrei vennero sistematicamente uccisi dagli assassini nazisti con l’obiettivo di creare un mondo più «puro» e «pulito». Devono sapere cosa significhi realmente «Shoah», un termine ebraico, quella «tempesta devastante» con il quale si suole indicare, con termini storici, lo sterminio della popolazione ebraica durante il secondo conflitto mondiale.
Devono sapere che, alla base del nazismo, vi fu una ideologia razzista e, particolarmente, antisemita. Che proprio quegli assassini, a partire da Adolf Hitler, posero a fondamento del loro progetto l’obiettivo di edificare un mondo «purificato» da tutto ciò che non fosse «ariano».
Devono sapere che quegli assassini si basavano sulla affermazione della presunta superiorità genetica della razza ariana. Devono sapere che Hitler ci riteneva una delle peggiori minacce al mondo e stabilì che dovessimo essere eliminati.
Devono sapere che, per colpa sua e delle sue irrazionali leggi, non potei più andare a scuola, né mio padre a lavorare, non potevamo entrare nei bar o nei negozi, andare a teatro o vedere i miei amici. Devono sapere come la gente che, fino a poco fa, era tua vicina di casa, non ti rivolgeva più la parola e guardava attraverso di te, come se tu non esistessi.
Devono sapere che queste forme di persecuzione, sempre più violente, arrivarono a privarci dei nostri diritti e a emarginarci dalla nostra vita.
Devono sapere come ci si possa sentire a essere incolpati e incarcerati per qualcosa che non hai commesso e che nemmeno loro sanno spiegarti.
Devono sapere come ci si senta nell’essere portati via dalla propria città, dalla tua patria, in dei carri bestiame, verso una destinazione sconosciuta: stare dentro vagoni senza cibo e acqua, uno appiccicato all’altro, per mancanza di spazio, al freddo e al gelo.
Devono sapere cosa si provi nell’essere gettati e scaraventati con violenza giù da un treno nella neve fredda di Auschwitz, a essere strappati via dalle braccia del proprio padre, la tua unica ragione di salvezza in quel caos sconcertante.
Devono vedere.
Devono vedere quell’insegna diffamatoria , «Il lavoro rende liberi», posta all’ingresso del campo, ma che, in quel lager, di libertà non ce n’era proprio.
Devono «vedere» come noi, persone, diventammo in brevissimo tempo povere, venissimo derubate di tutto, come venissimo spogliate, rasate, rapate, tatuate e , infine, rivestite con un’umile divisa a righe.
Devono vederci, mentre imparavamo la lingua dei «padroni», nel vano tentativo di ricordare il proprio numero di matricola che doveva sostituire, in tutto e per sempre, le proprie generalità: non eravamo più persone, eravamo diventati oggetti di utilizzo.
Devono vedere che, entrata in una baracca in un modo, ne uscivo da schiava.
Devono sapere che il nostro scenario fu per mesi solo denutrizione, malattie dovute alla totale mancanza di igiene e di riscaldamento nelle proprie baracche, a lavori portati fino allo stremo dei limiti fisici, e a umiliazioni brutali di noi prigionieri.
Devono vedere le camere a gas, gli appelli lunghi intere giornate, la fiamma ardente e incessante dei forni crematori, devono vedere gli uomini e le donne ridotti a scheletri morire per un sì o un no, citoplasmi barcollanti in giro per il campo in cerca di un pezzettino di pane; devono vedere le SS, i cani, i Kapò, gli ebrei, i musulmani, gli zingari, Hitler e Himmler ridere compiaciuti per il successo del loro operato.
Devono sapere che, nonostante tutto, nonostante le atrocità e gli abomini di coloro che ci volevano morti ed estinti, io abbia scelto la vita. Perché, dentro quel carcere, su quel treno, in quel campo, finché vedevo il cielo, azzurro o grigio che fosse, finché vedevo il cielo, non so come, avevo ancora speranza.
Devono sapere che il 27 gennaio del 1945 venivano aperti i cancelli di Auschwitz e che l’uomo, con la sua civiltà e il suo sapere, era colpevole di uno dei crimini più grandi della Storia; che occorre riflettere su cosa l’uomo sia stato capace di commettere.
Sali sul palco, sorridi ai ragazzi che ti guardano con occhi intrepidi, impugna il microfono e respira: «Bene. Incominciamo a ricordare»…
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