L’immensità dell’infinito
Perché siamo così spaventati dalla morte? Perché temiamo tanto la perdita di una persona cara? Perché viviamo l’esperienza del trapasso come un’inesorabile sconfitta?
Forse, l’unico modo per riuscire a dare una risposta a tutte queste domande è interrogare se stessi e ascoltare la nostra interiorità. Probabilmente non potremo mai scoprire che cosa faremo dopo la vita… Forse non è nemmeno nostro diritto saperlo; ma che cosa potrebbe realmente aspettarci al termine del nostro percorso terreno?
C’è chi ama fantasticare, e si perde in mille utopie, forse perché a volte immaginare una realtà diversa allevia l’afflizione. Talvolta, arzigogolare i propri pensieri, distorcere lo stato delle cose, ci aiuta a eliminare il lugubre clima nostalgico che si prova per la morte di qualcuno. Forse i nostri castelli in aria non saranno mai dei veri e propri castelli; magari scopriremo poi che in realtà si tratta di sontuose regge, oppure di misere capanne un poco diroccate.
Tuttavia, finché si è giovani e si ha la possibilità di fantasticare, senza la fatidica oppressione spesso causata dalle magagne del mondo degli adulti, è bene lasciar spazio e aprire le porte a tali utopie evitando di ascoltare i grandi che ci esortano a restare con i piedi per terra.
Magari, anzi quasi sicuramente, non raggiungeremo mai la verità; non indovineremo mai come gira il modo e quali sono le leggi che regolano la vita; però forse ci potremo avvicinare alla realtà. E se questo può aiutarci a superare la nostalgia di chi non c’è più, non vedo che cosa ci sia di male nell’immaginare e nel credere in una vita dopo la morte in cui avremo la possibilità di rivedere tutti i nostri cari, dove potremo un giorno riunirci tutti insieme.
Giacomo Leopardi, nonostante sia risaputo che avesse una tetra visione della vita, era un sognatore, una mente fantasticante alla ricerca della verità.
Lo si coglie nella sua lirica L’Infinito, ma ancora meglio nella poesia A Silvia: l’amore per una timida fanciulla, la gioia di udire la sua dolce voce canticchiare e riecheggiare, mentre l’accompagnava nei momenti più laboriosi della giornata; un giovanotto tutto intento in estenuanti studi, distratto dal dolce volto di Silvia, un volto soave e ameno, risplendente sotto i mitici colori della primavera.
E poi la morte.
Così, d’un tratto, un istante per portarsi via la fanciulla, con perfida mano e bieco desiderio di malvagità, che arriva assieme a perversa sete di anime innocenti.
Innocenti come Silvia, ma come ognuno di noi, nel suo piccolo, perché dinnanzi a qualcosa di così grande come la morte, anche il più diabolico degli uomini diventa misero e fragile, conscio di avere di fronte un qualcosa immensamente più grande di lui.
E così, tutte le fantasticherie, tutti i sogni, tutti i desideri di Giacomo svaniscono con Silvia, insieme alla giovinezza della fanciulla e a tutti i suoi disegni sull’avvenire.
Solamente i ricordi restano. Però i ricordi a volte fanno male.
Proprio per questo è bello andare oltre, soffermarsi su cosa potremmo incontrare dopo il traguardo che pone fine a questo arduo e a volte spinoso percorso, che, volenti o nolenti siamo costretti a compiere.
Possiamo solo immaginare quell’infinito che Giacomo Leopardi aveva cercato di descrivere; un infinito che non conosciamo perché troppo grande rispetto a noi, e che va al di là della nostra conoscenza.
La morte di Silvia allude allo stroncamento della giovinezza, alla repressione della speranza, alla distruzione di sogni ingenui e spensierati, desideri e invenzioni su un futuro destinato a non arrivare mai. Una morte precoce, che priva le persone del loro futuro.
Così come accadde a Giacomo Leopardi, la perdita dei propri cari spesso si rivela molto dolorosa. Sicuramente la scrittura può essere un mezzo per sfogare tutta la rabbia che si prova verso un’astrattezza che nemmeno si conosce, la morte. È vero, scrivere aiuta a non dimenticare, ma può essere un modo per riflettere sul senso di ciò e sul motivo per cui la natura ci porta via le persone a cui teniamo di più. A volte la scrittura è l’unica che sembra ascoltarci e capire le nostre afflizioni, preoccupazioni, desideri e speranze.
Probabilmente, quando Leopardi concepì la sua poesia dopo la morte di Silvia, si era abbandonato alla scrittura, come mezzo di alleviamento e riflessione.
Da ambiziosa sognatrice, ho imparato ad apprezzare la morte immaginandola non più come una perfida entità nemica, portatrice di lutti e seminatrice di empietà, bensì come ambasciatrice che non viene con il fine di indebolire ma di rinforzare il carattere di chi è più fragile, e che ci stimola a essere speranzosi circa il fatto che i nostri cari defunti, anche se fisicamente non possono esserci accanto, ci sorvegliano, ci ascoltano, ci guidano e si prendono cura di noi, come facevano quando erano qui sulla Terra.
Ho dunque imparato a non cedere ai ricordi malinconici, ripensando piuttosto alle memorie dei momenti allegri, come quelli che Giacomo Leopardi ha deciso di immortalare nella sua splendida poesia, al fine di lasciare per sempre inciso il ricordo della sua amata Silvia.
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