Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

La sfida del sole

Scorro le dita sulla carta. «Per Sarah», c’è scritto. Accarezzo ogni singola lettera, sentendo una forza crescere dentro di me, fino a espandersi e inondare ogni lato nascosto del mio corpo. Riconoscerei questa elegante scrittura ovunque. Come potrei non associarla a quegli occhi blu? Diego. Chiudo gli occhi e apro la busta, lisciandomela sulle gambe. «Perdonami». Una sola parola, al centro del foglio. E all’improvviso è come se ricevessi un pugno nello stomaco e tutta l’aria dei polmoni, tutto l’ossigeno, la forza e il calore venissero buttati fuori da me, lasciandomi un immenso freddo nelle ossa. Il cuore si ferma e io con lui. Non può essere. Mi prendo la testa tra le mani, cullandola. Non esce una lacrima, un’emozione dal mio corpo. Sono completamente congelata, fino a quando una piccola scintilla si accende. Non spegnerti. Non ho tempo per pensare. Comincio a correre. Corro e corro. Esco di casa spalancando la porta. Un piede dopo l’altro. Uno, due, tre passi. E chiedo a Dio perché non ci ha dato le ali. Lo insulto perché in questo momento fermerei tutti gli uccelli del mondo e strapperei loro le piume. Quattro, cinque, sei passi. So dov’è. Ricordo ogni singolo momento passato su quella terrazza. Tutte le lacrime, le risate. Tutte le volte che ci siamo detti «Andrà tutto bene», che saremmo riusciti a liberarci da tutte queste catene. Tutte le volte che ci siamo sussurrati segreti, danzando con solo la luna a guardarci. Sette, otto, nove passi. Finalmente giungo davanti alle scale, sono sei piani. Mi lancio sui gradini e salgo su e sempre più su, dimenticandomi come si fa a respirare. Quando i gradini terminano e lasciano spazio a delle piastrelle grigie, mi fermo. Il mio amico mi dà le spalle, seduto sul muretto con le gambe a penzoloni nel vuoto. Il sole sta tramontando e trovo che sia un grandissimo paradosso. Perché ho perso il conto delle volte che lo abbiamo guardato cadere dietro la città, sorridendoci beffardo, come a sfidarci, come a dire che lui può cadere tutte le volte che vuole, mentre noi possiamo farlo solo una volta. É assurdo come tutti i giorni, ogni alba riesca a salire, a toccare il punto più alto del cielo e poi a ricadere. E non importa se pianga o splenda, lui continuerà a rialzarsi e cadere, rialzarsi e cadere in un moto perpetuo. Il sole va avanti anche quando noi non lo facciamo e io sento le sue risa che ci deridono, deridono Diego perché potrebbe non rialzarsi più, deridono me perché potrei non riuscire a salvarlo. Mi faccio coraggio: «Diego», sussurro e lui sussulta voltandosi. I suoi occhi blu mi perforano l’anima. Scavano dentro il mio corpo fino a farmi male. «Non farlo» dico «Non buttarti». Ma il suo sguardo mi urla tutto quello che non avrebbe mai saputo dire a parole. É quel tipo di sguardo che appartiene a chi non importa più di nulla, a chi ha già perso tutto e non ha niente da guadagnare. No, non glielo permetterò. Noi siamo più di questo. Siamo più grandi noi dei nostri problemi. Colgo l’occasione non appena si volta, lanciandomi in avanti e afferrandolo per le spalle. Tiro con tutta la forza che ho nel corpo, cadendo di schiena con lui sopra di me, mentre le lacrime mi rigano il viso. E se tutti gli attimi del mondo esistessero insieme, si fermerebbero a guardare il nostro. «Giuro, non ti abbandonerò mai, ti aiuterò a uscirne». Lo stringo ancora più forte e restiamo così. In silenzio. A guardare il cielo cadere sopra di noi, urlando al sole che questa volta ha perso lui.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010