Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

La tigre di Rousseau
di Luca Novelli
Finalista

Qualche tempo fa ero a Londra. Era l’ultima settimana di Gennaio, giornate corte, cupe. Avevamo in programma di andare alla National Gallery. C’era un cielo opprimente, un’aria fredda e un senso strisciante di depressione. Erano le quattro di pomeriggio, e ci stavamo riposando sui gradoni antistanti il museo. Eravamo sei o sette, tutti ragazzi, eccezion fatta per Dafne. Fumavamo con lentezza. Guardavamo i piccioni, i turisti e la statua dell’ammiraglio Nelson in cima a un obelisco. Ci stavamo annoiando.
A un certo punto arrivò un tizio, completamente ubriaco. Ci chiese del tabacco e si mise a parlare. Fece un monologo su quanto la vita fosse crudele. Mi dava fastidio, mentre per gli altri era un intrattenimento. Finita la sigaretta sul suo volto comparve un ghigno. Si diresse verso Dafne. Lei s’irrigidì, aveva paura. Nello sguardo di quell’uomo c’era uno squallido impeto, l’immagine di un desiderio viscido; c’era violenza, odio. C’era un qualcosa che mi fece scattare in piedi. Me lo ritrovai davanti, muso contro muso. Non si doveva avvicinare a Dafne.
Fu un secondo forse, o forse dieci, o forse neanche uno. Nei suoi occhi c’era un tumulto di emozioni. Ciò che mi aveva disgustato della sua espressione stava adesso mutando. Il suo viso era scolorito, l’impeto svanito. Il ghigno si era trasformato in rabbia, che poi, per uno sconosciuto motivo, era diventata paura, una paura mostruosa. Si era ritratto, aveva fatto un passo indietro, sostenendo a fatica il mio sguardo. Fu preso dal panico. Scese incespicando dal gradone su cui ci eravamo fronteggiati, si voltò e quasi correndo si diresse verso la statua di Nelson. Se ne stava andando. Continuai a fissarlo, lui continuò a correre. Mi voltai verso Dafne, non c’era più; girai la testa. Era all’ingresso della National Gallery.
Ero in piedi. Gli altri, rimasti lì, erano come svaniti. Mi tremavano le gambe. Il cuore era arrivato alla gola, e chiedeva di scappare. Le ginocchia erano pesantissime, fui costretto a sedermi. Una parete di angoscia si schiantò contro il mio petto. Non avevo controllato le mie azioni, né le mie emozioni. L’unico pensiero era stato quello di non far avvicinare quel tizio a Dafne. Al posto della ragione era subentrata una forza, un istinto di protezione primitivo, animale; un flusso di energia aveva soverchiato la mia volontà e trasferito le decisioni all’inconscio.
Ora però non avevo neanche più la forza di alzarmi.
Rimasi seduto a guardarmi le scarpe, immobile, solo.
Mi ritrovai a camminare nell’atrio della National. Non capivo cosa avessi intorno, quell’ambiente mi era sconosciuto. Tutto era buio. Il mio corpo si fondeva con i muri. Le luci svanivano, assorbite dai soffitti; il museo si trasformava in una grande cattedrale; rimbombavano echi, enormi pilastri cadevano dal soffitto. Voci di bambini, forse inglesi, forse tedeschi, si inseguivano nel vertiginoso spazio della stanza. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, ero seduto su una poltroncina di pelle.
Bevvi un sorso d’acqua. Ricominciai a pensare. Volevo trovare Dafne, per abbracciarla, per baciarla, per dirle che erano quattro anni che volevo abbracciarla e baciarla. Attraversai di corsa il museo. Lei non c’era.
A quel punto pensai ai quadri.
Diedi uno sguardo all’arte del settecento, che però mi infastidì; mi sembrava banale, inutile, rispetto all’abisso che si era aperto nella mia mente. Approdai alle sale dedicate all’arte romantica e all’impressionismo. Cominciai a riprendermi; quei colori, quelle armonie, avevano su di me l’effetto di una boccata d’aria fresca. Respiravo. Giunsi nell’ultima sala.
Mi appare vuota, disadorna, solo un quadro sulla parete che ho di fronte. Il colore bruno della tappezzeria mette in risalto una tela di dimensioni abbondanti, dai colori accesi. All’inizio distinguo solo un paesaggio tropicale, una foresta. È piegata dal vento; intravedo delle gocce, che gocce non sono, sono linee, è una tempesta. In primo piano un arbusto, più in alto, due fulmini bianchi, della stessa materia della pioggia. Il cielo, a brandelli, è ora grigio, ora blu, ora verde.
Nel folto dell’erba scorgo un occhio.
È una tigre! Mi guarda! Mi guarda con occhi tremanti! È una tigre, mi guarda e ha paura! Quanta paura, quanto terrore in uno sguardo! Quanto, mi chiedo, quanto? Perché mi guardi in quel modo, tigre, perché il tuo sguardo mi ferisce? Cos’è questo dolore? Io l’ho già visto quello sguardo, io l’ho già visto quel terrore, ma dove? Mi sto forse specchiando? No, quelli non sono i miei occhi. Dove li ho già visti? È Dafne? No, non è neanche Dafne, prima non aveva quello sguardo, non è lei. Che sia l’ubriaco? Che sia lo sguardo di quell’uomo? Non può essere, no, non può essere lui. Guardo la tigre. Una morsa mi stringe lo stomaco. La paura, immotivata, aumenta; la tigre sta per sparire dentro l’erba, vuole sparire, non può vivere con quella paura, quel terrore la sta disintegrando, quel terrore la sta annientando, sta scappando giù dai gradoni, sta correndo verso l’obelisco, è lei, è lui, è l’ubriaco! Il terrore della tigre è il terrore di quell’uomo! È lui, è assolutamente lui. Corre, inciampa e di nuovo corre, supera l’obelisco, svanisce nell’erba. È svanito, e con lui la tigre: il dipinto l’ha inghiottita. La tempesta è cessata. La giungla torna alla quiete, i fulmini rientrano nelle nuvole, l’albero non straccia più il cielo, anche la pianta verde smeraldo smette di ondeggiare.
Sentii una lacrima adagiarsi sulla guancia e un braccio che con dolcezza mi cingeva il ventre; mi voltai, era Dafne. L’abbracciai, lei mi abbracciò, poi mi guardò negli occhi, entrambi stavamo piangendo, delicatamente. Col dorso dell’indice mi asciugò le lacrime poi, mi baciò.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010