Una collana di corda
di Rebecca Casati
Finalista
Il cuore sembrava voler abbandonare il mio petto e i polmoni mi bruciavano, alimentati dal colore simile a quello del fuoco della foresta che mi circondava. Quando non riuscii più a vedere il sentiero che avevo percorso, decisi di sciogliermi i ricci infuocati coperti dal cappuccio nero della felpa, lasciandoli liberi di essere accarezzati dalle ali di vento pungente come foglie autunnali.
Rallentai il passo, allontanandomi sempre più dalla civiltà e addentrandomi in quel groviglio di rami parzialmente spogli. Lasciai riposare i miei polmoni, inalando aria umida attraverso profondi respiri ed esalando dopo qualche secondo, sospirando. Inalai. Tre passi. Esalai. Altri tre passi. E così di seguito. Focalizzai la mia attenzione sul respiro tanto da non curarmi più di dove stessi andando. Persi l’orientamento. Appena me ne accorsi mi guardai intorno, curiosa, ma non riconobbi niente. L’essere spaesata, il non saper dove andare da sempre faceva salire in me il panico, mi svuotava la cassa toracica. E tutto ciò mi piaceva tremendamente. Mi faceva impazzire. Adoravo sentire il sangue ribollire nelle mie vene e congelarsi l’attimo successivo. Adoravo quando i miei sensi amplificavano le loro abilità, facendomi sentire sovrumana. Non un’eroina, semplicemente diversa. Riuscivo a percepire il fruscio della singola foglia che si adagiava, senz’anima, a terra. L’odore di terra umida era sempre più presente, inebriante. I miei occhi seguivano rapidi ogni gocciolina che, spinta dalla gravità, veniva attratta inevitabilmente verso il basso, inumidendo il tappeto infuocato sotto di me.
Mentre accompagnavo con lo sguardo la fine di quel piccolo frammento di cielo, scorsi qualcosa che si nascondeva, sul tronco di un albero, o meglio, su un ramo. Mi avvicinai, curiosa di scoprire cosa fosse. Riuscii a capire che si trattava di un foglietto, bianco candido, immacolato. Scritta in corsivo, con una calligrafia insicura ma calcata, tremolante in alcune parole più di altre. Presi il bordo inferiore del pezzo di carta per poter leggere più chiaramente, fermando il suo moto svolazzante al vento, e lessi.
Verrai, verrai,
all’albero verrai,
con me a dondolar, con una collana di corda?
Si verificaron qui strani eventi
e nessuno verrebbe mai a curiosare
s’a mezzanotte ci incontrassimo
all’albero degli impiccati.
Verso dopo verso, parola dopo parola, l’inquietudine prese il controllo sul mio corpo. Sembrava essere un invito per me. Provai paura, o forse terrore? Un brivido mi percorse le vertebre, una ad una, e indietreggiai poco alla volta, con passo felpato, come se quell’albero, se quel biglietto fosse una belva feroce a digiuno da mesi, e stesse aspettando me.
Purtroppo mi accorsi che la mia mente mi stava ingannando, le mie gambe non si erano mosse di un centimetro. Il mio corpo non rispondeva più ai comandi. Cercai di calmarmi, provai a convincermi che tutto ciò fosse solo un incubo, una costruzione della mia mente malata. Ma il vento iniziò a parlare, a sussurrare quella filastrocca, facendomi venire le vertigini. Con i palmi sulle orecchie, premetti così tanto da farmi male, per non sentire più quel mormorio assordante.
Improvvisamente si fermò tutto, anche il tempo. L’albero davanti a me non si muoveva più, ma continuavo a sentire le dita affusolate del vento invernale accarezzarmi la pelle arrossata dal freddo.
Ma qualcosa non andava. Un particolare, in quel luogo macabro e immobile, stonava.
Sentii un respiro profondo, quasi strozzato, ma non fui capace di identificarlo poiché, oltre a me, non c’era nessuno. O forse sì? Ripresi il controllo del mio corpo e riuscii a voltare il viso a destra e a sinistra, scrutando attentamente ogni angolo che riuscivo a vedere, cercando – inutilmente – qualcosa che non sarei riuscita a trovare. Ero consapevole di essere sola, eppure la speranza era presente chiaramente in me. Così, spinta da quell’emozione, riprovai a guardarmi intorno, alla ricerca di qualche segnale. Ma vidi solo foglie, legno e capelli. Capelli?
Nascosti dal possente tronco dell’albero, ondeggiavano come fili ramati, lucenti, illuminati dalle ultime luci del giorno. Sorpassai il foglietto, che per tutto il tempo mi aveva fronteggiata e, tremante dall’adrenalina, appoggiando il palmo destro sopra il sinistro sul tronco, inarcai la schiena per vedere meglio restando nell’ombra. Quello che mi si presentò davanti non fu esattamente ciò che mi aspettavo.
Una ragazza minuta, con una folta chioma riccia che le copriva il volto, dondolava spinta dal vento indossando una collana di corda.
“La polizia.” Pensai. “Devo assolutamente chiamare la polizia.”
Mi tastai le tasche dei pantaloni e della felpa ma niente, il telefono non c’era. Presi un respiro profondo e mi avvicinai a lei. Mi resi conto che mi assomigliava tremendamente, in un modo inverosimile. Allungai una mano verso di lei, per poterle scoprire il viso. Incastrai le dita tremanti tra i suoi ricci e, alzandomi in punta, ruotando il polso, allontanai una ciocca di capelli.
Gli occhi svuotati, spenti. Ma aperti. L’incarnato cianotico, traslucido, da sembrare porcellana. Perfetto. E le labbra incurvate in un sorriso. Mi sentii mancare l’aria, come se qualcuno mi stesse ostruendo le vie respiratorie e istintivamente mi portai le mani alla gola. Tossii. Chiusi gli occhi dal dolore. Indietreggiai. Quando li riaprii i miei piedi non toccavano più terra, penzolavano nel vuoto, a qualche decina di centimetri dal terreno, ormai nero come la pece. Mi guardai intorno a fatica, mentre l’ultima riserva di ossigeno si stava esaurendo, ma la ragazza era svanita. Esalai, sospirando, sorridendo. Dondolante al vento. Con una collana di corda. Recitando mentalmente la filastrocca.
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