Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

Il filo d’erba abbracciato dal vento
di Beatrice Maria Casati
Finalista

Il racconto è frutto delle emozioni evocate dall’esperienza di lettura della struggente testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi, sopravvissuta alla Shoah, e dalle parole della canzone di F. Guccini Canzone di un bambino nel vento.
I testi sono stati rielaborati e reinterpretati, e hanno fornito una solida base da cui trarre ispirazione durante un compito in classe. Nel racconto si fondono citazioni, nuovi personaggi e la storia vera di una testimone della Shoah.

Avevano tolto loro tutto: i vestiti, i capelli, il nome. Ma loro non si erano ancora dimenticati chi fossero. Certo, si trovavano ad Auschwitz già da un mese e il loro aspetto era cambiato radicalmente, ma gli occhi, seppur pieni di lacrime e segnati dalla malattia, non avevano smesso di essere specchio dell’anima. L’umanità era pietrificata, ma non del tutto scomparsa. Il tifo, di cui quelle persone avevano contratto una strana forma, le aveva salvate dalla morte, appena giunte a quel terribile campo; in seguito le aveva portate a essere rinchiuse nella zona Revier per essere studiate, in quanto esemplari rari. Medici su medici le esaminavano, torturavano e umiliavano senza nemmeno incrociare i loro sguardi. Tuttavia quando ciò accadeva, nei loro occhi emergeva una disperata lotta per la vita. Era una domanda a sostenere i prigionieri: siamo solo degli esemplari rari? Queste parole sembravano poca cosa, ma tentare di rispondere, mentre i medici lavoravano, creava uno scopo per cui sopravvivere altre ore. E ore su ore, formavano un giorno di vita.
Dunque ecco la mia risposta. Innanzitutto non erano numeri, come invece era scritto sul loro braccio, ma esseri umani, rappresentanti della più alta forma di vita. Donne e bambini che un tempo avevano abitato i suggestivi paesaggi dei Sudeti e viaggiavano a bordo di stravaganti carri e allevavano meravigliosi cavalli. Non era mancato poi qualche spettacolo per intrattenere i passanti con abiti variopinti e coreografie semplici ma incantevoli. In generale, erano chiamati «zingari» da coloro che li vedevano dall’esterno e, nel 1939, avevano ritenuto il loro popolo indegno di vivere sulla terra. Ora si trovavano lì, in un presidio del Male ramificato e vivevano sulla propria pelle le mille contraddizioni del piano geniale studiato dal Führer Adolf Hitler.
Una notte, durante la convalescenza, una ragazza di nome Alina, che sino a poco tempo prima era stata una ballerina, si alzò, si diresse al centro della baracca e disse con rabbia: «Che differenza c’è fra noi e i nostri parenti, i nostri amici, e gli altri prigionieri , che non si vedono più dal giorno del nostro arrivo? Se lo scopo è eliminare la nostra razza, perché alcuni vivono di più? Forse ci attende una morte diversa e più dolorosa? Più lenta e crudele?».
Non sapeva che tutti i «pezzi» utilizzabili sarebbero stati sfruttati sino alla fine, chi per l’industria bellica, chi per diventare delle cavie da esperimento. In ogni caso, nessuno rispose, nemmeno le donne che in libertà avevano avuto sempre una soluzione a qualunque problema. E tacquero persino le detenute che sapevano qualche informazione in più. C’erano tante persone ad Auschwitz, ma tutte stavano in silenzio e gemevano a bocca chiusa. Silenzio, silenzio, silenzio. Fuori si sentivano le grida delle sentinelle e guardando dalle piccole finestre della baracca si vedevano altri prigionieri che camminavano, tuttavia erano scene di pietra, da cui suoni e colori sembravano scomparire lentamente, provocando giramenti di testa. Ognuno era imprigionato in quella macchina di distruzione, insieme a persone accomunate dalla medesima colpa inconsistente; allo stesso tempo però ci si ritrovava chiusi nella propria gabbia, da soli, sospesi nel buio.
«Il lavoro rende liberi», così recitava l’insegna all’ingresso di Auschwitz, come se esistesse un modo per uscire da quella gabbia. In effetti, tutti lavoravano ma per contribuire alla propria morte. Erano i nazisti forse, che speravano, chissà perché di liberarsi di persone così problematiche. Alina, ad esempio, aveva sentito parlare delle persecuzioni e sapeva che la loro religione non era legata alla genetica: allora perché loro erano stati deportati? Li aveva visti solo una volta, con la stella gialla sul petto e la fede scritta in volto; aveva capito che tutta quella storia non aveva alcun senso. A un certo momento nella baracca occupata dagli zingari, si fece avanti una piccola creatura e iniziò a saltellare e canticchiare. Alina la sentì e percepì anche il tintinnio delle medagliette, che sembravano far parte naturalmente di quel piccolo corpo nudo. Esso apparteneva a un bambino di circa tre anni, quasi cieco, che finita l’esibizione tese la manina bruna per chiedere qualcosa. In libertà aveva imparato subito a lavorare per ottenere ma ovviamente doveva ancora capire che nel campo questa regola non sarebbe più stata valida. O forse l’aveva capito meglio di tutte le altre donne e cercava di non farsi portare via le proprie tradizioni e la propria storia. Agli adulti non fece alcun effetto, ma chissà cosa sarebbe successo se avesse incontrato altri bambini della sua età.
C’era ad esempio un piccolo prigioniero nel blocco 24, che non riusciva a comunicare con nessuno e indossava un vestito troppo largo che gli cadeva addosso come per ricordargli la sciagura abbattutasi su di lui e sugli altri prigionieri. Dalla testa pelata si capiva ancora che quel bimbo era biondo e la stella rossa sul petto lo indicava come prigioniero politico.
«Un vero prodigio, a quattro anni si è già cimentato in saggi riforme e sommosse.»
I suoi compagni di baracca lo avevano deriso così, mentre cercavano di non piangere, ma, dopo una impercettibile risata, ripiombò di nuovo il «grande» silenzio.
Nel blocco 24 «il biondo senza nome» impressionò una ragazza di nome Lidia, scarna ma attaccata alla vita con il filo dell’amore. Alcune notti si ritrovò il piccolino tra le braccia senza averlo visto tutto il giorno, dopo l’appello del mattino e decise di donargli l’affetto gratuito che spesso unisce i condannati. Lidia sapeva dell’esistenza di un lugubre forno che Hitler e i suoi complici avevano attivato per bruciare vite, corpi e sogni. Capiva di essere una «moritura» e si rese conto che per un condannato ogni stelo d’erba era un dono, sebbene lì intorno non ci fossero molti prati da contemplare. Lei però, aveva trovato il proprio stelo d’erba, biondo e bisognoso d’affetto, e una notte si accorse di accarezzarlo dolcemente. Tuttavia, ventiquattro ore dopo, quando si decise a parlargli, non lo trovo più. Scomparso all’improvviso dopo quindici giorni di detenzione. Chissà come si sentiva solo in quel momento… Lidia corse a sbirciare dalla fessura di pochi centimetri che tutti chiamavano «finestra» e notò una lunga colonna di fumo che usciva dalla ciminiera, così lontana ma così vicina. Si voltò e vide una detenuta poco più grande di lei che era a conoscenza del suo rapporto col piccolo biondo e annuiva tristemente. Sì il filo d’erba si trovava nella colonna di fumo davanti ai suoi occhi.
“Spero che tu non ti senta solo”, pensò Lidia, “Spero che lì nel vento ci sia qualcuno disposto ad abbracciarti e spero, infine, che tu riesca a sorridere ora. Non devi piangere per ciò che capiterà a noi. Siamo in balia di una belva umana ma, se sopravviverò, tu sarai sempre con me. Se invece questa belva punterà il suo cannone anche contro di me, allora ti raggiungerò nel vento per abbracciarti di nuovo”.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010