La poltrona e il prosecco
di Giulia Aloe
Terzo premio
Rebecca ama leggere. In camera sua c’è una libreria alta fino alle travi del soffitto, piena di volumi colorati e di misure diverse, e il loro numero cresce di settimana in settimana: in quattordici anni ho visto quella libreria trasformarsi, passando dalle dimensioni di una provincia a quelle di un impero. Lei è l’imperatrice, sistema tutti i suoi sudditi in ordine alfabetico ogni settimana, facendo spazio ai libri appena comprati, aggiungendo scaffali e mensole a seconda delle sue esigenze.
Spesso mi chiedo cosa accadrà un giorno, quando la libreria sarà troppo grande per poter essere contenuta nella sua stanza, e lei dovrà invadere un’altra camera, proprio come quando un impero attacca un altro paese per allargare i propri confini.
La Punto parcheggiata sul lungomare.
Io no, io non so leggere. Mi accontento di ascoltare Rebecca quando mi legge una delle storie del suo impero: una volta, quando eravamo più piccoli, si trattava di storie di principesse, di pirati, di draghi e fate. Ora sono storie vere, di donne che baciano donne, di figli alla ricerca dei propri padri, storie di malattie, di guarigioni, di morti e di vita.
E no, non so neanche scrivere: ci metto sempre il doppio del tempo che impiegano gli altri, mi vengono i crampi alle dita a furia di cancellare e riscrivere tutte le parole che sbaglio, e anche i crampi agli occhi e alla testa.
Scusami, ma la lettera non sono riuscito a portartela.
Finisce sempre che lancio gli occhiali sul letto e straccio la carta su cui sto scrivendo, e allora mi stendo sul piumone ad ascoltare la musica.
Tutti, persino i miei genitori, hanno sempre creduto che io non mi applicassi allo studio, che fossi sempre distratto, disattento o, più semplicemente, stupido.
Come quella volta che ero in classe, e il professore di storia mi ha chiesto la data della scoperta dell’America, e io non la sapevo. Maledetto 12 ottobre 1942.
Visto, anche adesso ho sbagliato: era 1492.
Prosecco.
Tutti i miei compagni si sono messi a ridere perché, insomma, non è possibile non sapere la data della scoperta dell’America a diciassette anni.
E invece è possibile.
A basket so giocare, e anche bene.
La Punto.
Conosco tutti gli schemi a memoria, so muovermi nel campo anche a occhi chiusi, senza perdere mai la percezione della posizione esatta del ferro del canestro, e le mie lunghe dita da cestista passerebbero ore a scivolare lungo le scalanature nere degli otto spicchi in cui è divisa quella magica sfera arancione di cuoio. Mi alleno tutti i giorni e, siccome la squadra in cui gioco si trova in un paese a qualche chilometro dal mio, c’è un treno che mi aspetta alle cinque in stazione e in circa mezz’ora mi conduce dentro alla tensostruttura dove il mio respiro, quello dei miei compagni di squadra e quello del motore che tiene in piedi il pallone di poliestere diventano un solo respiro.
È in stazione che ci siamo baciati la prima volta, io e Rebecca. La prima e ultima.
Rebecca studia greco a scuola, e una volta mi ha detto che Alessandro significa «protettore di uomini», e che è proprio vero, perché lei ogni volta che sta con me si sente protetta. Siamo cresciuti insieme noi due, come un fratello e una sorella, con la sola differenza che siamo sempre stati innamorati l’uno dell’altra. Da piccoli giocavamo a fare la famiglia felice: io e lei eravamo i genitori, e le sue bambole erano i nostri figli, e noi andavamo in giro per il giardino di casa sua mano nella mano, con tanto di passeggini e biberon.
Stavi forse pensando alla nostra Matilde?
Lei è così bella. Ha i capelli biondi e ricci, ma tanto ricci, tanto da ricordarmi il mare in tempesta, soprattutto quando c’è vento e le ciocche le ricadono in faccia, sugli occhi, sulle labbra. Se il biondo dei suoi capelli mi fa pensare al miele, l’azzurro dei suoi occhi mi porta alla memoria il cielo che c’era una volta che abbiamo fatto volare gli aquiloni insieme, sulla spiaggia, in pieno inverno e, ora che ci penso, il mio aquilone era rosso come rosse sono le sue labbra e le sue guance, soprattutto quando prende freddo. E poi è alta, e magra al punto giusto, e le sue mani, Dio, le sue mani sono stupende, ma lei lo è di più, anche e soprattutto quando si veste da maschio, e mette le mie felpe che la fanno sembrare enorme, ma poi mi ricordo sempre che quando stiamo in spiaggia, in costume, le si vedono le costole, per cui non è così enorme come sembra.
Era giovedì, il 14 di novembre, ed è stato quello il giorno del nostro primo e ultimo bacio. Nel pomeriggio ho fatto i compiti, ho preparato il borsone e poi sono corso da lei. Siamo andati in un negozio di vestiti, perché lei avrebbe avuto una festa nel weekend e doveva comprare qualcosa da mettersi.
E io la vedevo bella con qualsiasi cosa provasse, come sempre.
Poi mi ha accompagnato in stazione, e quando è arrivato il treno ci siamo abbracciati e lei mi ha baciato. Solo che poi è scoppiata a piangere ed è corsa via. Io sono salito sul primo vagone, senza dire una parola.
È stata proprio Rebecca a spiegarmi cosa sia la mia malattia. Lei è intelligente e studia greco, e ha detto che si chiama ipertimesia, che significa qualcosa come «super memoria».
Io ricordo ogni singolo giorno della mia vita, senza volerlo, senza farlo apposta: il mio cervello riproduce continuamente immagini del mio passato, senza chiedermi il permesso. È come se davanti ai miei occhi scorresse la pellicola della mia vita e io fossi legato alla sedia della sala, senza possibilità di sottrarmi alla visione, tiratemi fuori da qui, nessuno viene a prendermi.
Il problema è che il mio cervello, questa scatola malfunzionante, non riesce a concentrarsi mai veramente, nè quando scrivo, nè quando leggo, nè quando discuto, nè quando studio. Quindi, a volte, scrivo o dico cose che non c’entrano con quello di cui sto parlando, ma che sono semplicemente residui delle memorie che, nel frattempo, mi stanno attraversando i pensieri.
È per colpa dell’ipertimesia che Rebecca piangeva, me lo ha spiegato il giorno dopo lei stessa: dice che io e lei non potremmo mai stare insieme, perché se lei mi ferisse io me lo ricorderei per sempre. Come mi ricordo quella volta in cui ero sovrappensiero, e lei mi ha domandato qualcosa, ma io non le ho risposto; allora, lei mi ha chiesto se stessi pensando alla nostra Matilde, che è il nome che abbiamo scelto per nostra figlia, a cinque anni.
Rebecca lo sa che avrei voluto scriverle una lettera, per spiegarle che non mi importa se lei mi ferirà e se mi ricorderò per sempre se mi farà soffrire. Ma non ci sono mai riuscito, l’argomento era troppo difficile da sostenere sia per le mie mani che per la mia testa e, forse, anche per il mio cuore. Allora gliel’ho spiegato a voce, come potevo, ma lei non ha cambiato idea.
«Magari, un giorno…».
E io aspetterò quel giorno, perché un’altra Rebecca so che non la riuscirò mai a trovare.
Una volta il mio allenatore era strano, e dopo la partita mi ha portato al mare, con la sua Punto blu. Abbiamo parcheggiato sul lungomare e siamo scesi in spaggia, camminando a piedi nudi sulla sabbia. E allora l’ho visto piangere, guardando verso il mare, Diego che piangeva a trentacinque anni. Così, tra i singhiozzi, Diego mi ha chiesto come sia non riuscire a dimenticare nulla.
Non so rispondere a questa domanda.
perché Diego e sua moglie avevano perso il loro Mattia, e non sapeva se sarebbe mai stato in grado di dimenticare questo dolore, non sapeva neanche se fosse giusto dimenticarlo.
Neanche papà ha preso bene questa storia dell’ipertimesia. Quando la psicologa ci ha convocati per spiegarci la mia situazione, la sera stessa di quell’incontro, lui era davanti alla televisione, a piangere e a bere prosecco.
Ma io non sono malato, e non morirò per l’ipertimesia, per cui non capisco perché tutti piangono, Diego, Rebecca e papà. Sì, è difficile non riuscirsi a concentrare, è difficile non riuscire a ricordare nulla e, al contempo, non poter dimenticare niente. Sì, sono strano, a scuola ho dei programmi diversi dai miei compagni, verifiche semplificate e uso gli audiolibri. Sono dislessico, disgrafico e discalculico, e tutti mi prendono in giro. Spesso ho attacchi d’ira, sono iperattivo e tendo a isolarmi. Non sono in grado di programmare il mio futuro, perché appena ci penso cado nel panico e nell’ansia.
Questa mia super memoria non mi abbandonerà mai, e non lo faranno neanche tutti gli altri disturbi che essa porta con sè.
Ma io sono Alessandro, sono un protettore di uomini, per cui da grande farò il medico, forse, oppure continuerò a giocare a basket e andrò in NBA, e porterò con me Rebecca e Matilde, e farò costruire una villa sull’oceano per mia mamma, mio papà e mia sorella Marika. Ogni anno festeggerò con Rebecca il 14 di novembre, il giorno del nostro primo bacio, e se lei non se lo ricorderà ci penserò io.
E papà, quando sarò in NBA, oppure farò il medico, o l’allenatore come Diego, tu sarai fiero di me, come quando prenderai in braccio Matilde per la prima volta, e lei sarà piccolissima, con gli occhi azzurri e i capelli biondi e ricci. Non so se sarò un buon padre, neanche se sarò un buon marito, e forse a volte farò come te, starò a piangere davanti alla TV con la bottiglia di prosecco appoggiata di fianco alla poltrona.
Ma papà, ti prometto che la mia super memoria non avrà mai la meglio sulla mia voglia di costruire nuovi ricordi, anche se spesso farà paura, anche se non sarà facile e le sofferenze passate mi perseguiteranno. Io voglio vincere in questa vita, come l’anno scorso, quando abbiamo vinto le finali regionali ed eravamo tutti in campo a saltare, a gridare e lanciarci la coppa.
Voglio bere la vita, come abbiamo bevuto l’aranciata da quella coppa, con tutta la squadra.
E ci riuscirò.
La poltrona e il prosecco.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni