Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

Gusci di nutrimento
di Bianca Irene Carnesale
Primo premio

Si era rifugiata in soffitta, in quel fine settimana piovoso: i suoi genitori l’avevano costretta a seguirli, mentre lei avrebbe preferito stare in città, non sapeva a fare cosa, ma solo per il gusto di aver un giorno tutto per sé. Un giorno libero dagli obblighi che le imponevano gli adulti, genitori, insegnanti: tutti che sapevano quale fosse il suo bene, quale fosse la sua strada di diciassettenne che era brava a scuola, che non dava problemi. Eppure si sentiva inquieta, diversa.
«È normale» le dicevano. Erano bravi genitori, bravi insegnanti. Alcuni, almeno. Altri no, ma lei non aveva il diritto di dirlo: «non poteva capire».
Forse avevano ragione loro. Tutto le andava stretto, la scuola, la stanza, la famiglia, gli amici. Nella soffitta della casa di campagna, la vecchia casa della nonna che non aveva mai conosciuto, si sentiva libera.
Da quanto tempo nella sua vita vedeva solo doveri? Da quanto tempo non leggeva un libro per il piacere di farlo? Certo, a scuola le dicevano cosa leggere: poi, prosa o poesia che fossero, toccava analizzarlo, sempre e comunque. Si capivano meglio i testi: ma non era libera riflessione, era la vivisezione del testo.
Lei – lo poteva giurare – aveva sentito Leopardi urlare quando la prof aveva tenuto un’intera lezione sul fra o tra negli autografi dell’Infinito.
Lei, invece, nella poesia ci era naufragata dentro e alla domanda della prof non aveva saputo rispondere.
«La solita distratta: troppe cose per la testa» era stato il commento.
Acidi: lei gli adulti li trovava acidi. Forse non avevano mai avuto diciassette anni o comunque se n’erano scordati. Per leggere doveva rubare tempo al sonno: leggere senza dover vivisezionare. Ora aveva terminato l’Antigone: una meraviglia. Le toccava l’analisi e in lei traboccavano idee e concetti, ma non osava guardare la griglia di lettura. La griglia dove lei, insieme ad Antigone, sarebbe state vivisezionata, martirizzata. Vedeva il proprio entusiasmo spegnersi, come un fuoco sul quale qualcuno gettava distrattamente – malvagiamente? – dell’acqua.
La pioggia batteva sul tetto e la induceva al sonno: per scuotersi si mise a guardare dentro un vecchio baule. Alcune coperte – no, si chiamavano pezzotti (che buone le parole che hanno una storia) – stavano facendo la muffa. Sotto, nascosto in un angolo, un piccolo quaderno, sgualcito, inumidito. Lo aprì, attenta a non rovinarlo: era un vecchio quaderno, con pochi fogli, scritti.
Un nome: Grazia, il nome di sua nonna, nome che era toccato anche a lei. Si mise a leggere, ragazza di oggi, per il piacere di leggere, quelle pagine scritte da una bambina in tempo di guerra per il piacere di scrivere.

Il vecchio è seduto vicino alla finestra, il volto verso il giardino imbiancato dalla prima neve.
Sulla porta della sala, la donna mi fa cenno di entrare. Entro, mi guardo intorno, impaurita e incuriosita: le pareti sono ricoperte da scaffali chiusi con vetri che lasciano intravedere volumi e volumi.
Mi avvicino alla poltrona del vecchio, in silenzio faccio una riverenza. So che le mie gambe sono troppo ossute e che si stanno arrossando per il caldo della stanza. Un po’ me ne vergogno. Il fuoco crepita nel camino. Il caldo mi rassicura. La donna si rivolge a noi con un sorriso:
– Vi lascio. Se avete bisogno, chiamatemi.
Esce e chiude la porta.
– Nevica oggi, bambina? Mi hanno detto che ti chiami Grazia. E che sei la più brava a scuola.
L’uomo parla con un tono che non richiede risposta. Sono intimorita dalla casa, così grande, così bella, con quelle stanze con mobili sontuosi (una parola che ho scoperto da poco), soprattutto quei mobili alti, con le ante a vetro e dietro tutti quei libri. Non ho mai visto tanti libri insieme. A casa sono rimasti i libri della mamma e quelli della nonna che parlano di come nascono i bambini: libri che diventeranno miei, perché anch’io studierò da ostetrica. Poi ci sono i libri di scuola, i miei e quelli dei miei fratelli, ma non mi piacciono, anche se la mamma mi ha proibito di dirlo. Poi c’è la Bibbia, un po’ bruciacchiata a lato. La mamma l’aveva salvata, scottandosi le dita, quando erano arrivate le camicie nere a bruciare i libri dell’anarchico: insieme ai pochi libri di papà avevano buttato nel fuoco anche i nostri libri di avventure e la Bibbia. Ma la mamma l’aveva salvata. Gli altri libri erano finiti in cenere. Io e i miei fratelli abbiamo cercato di mettere insieme qualche pezzo, ma ormai non si leggeva più nulla. I libri sui quali avevo sognato paesi lontani, ma soprattutto i libri che leggeva papà: le sue dita grosse e dure che scorrevano riga per riga quei testi e i suoi occhi che diventavano brillanti. Era bastata una frase, detta nel locale del paese, davanti a un bicchiere di vino rosso, forse uno di troppo, perché se lo portassero via, lui, minatore, anarchico, bevitore, che non sapeva stare zitto né cosa fosse la prudenza. Il mio papà, che leggeva a fatica, parola per parola. Per questo io voglio essere la più brava a scuola. Le donne del paese dicevano che solo una come la Maria poteva prenderselo e farci dei figli; che lui era uno scomunicato quanto lei era una santa e ora quei poveri figli erano senza padre e non potevano neppure fare ginnastica, né partecipare alle parate: se ne stavano seduti, in disparte, a vedere i loro amici che marciavano, vestiti da giovani italiane e da figli della lupa. Questo dicono di me e dei miei fratelli. Non capisco bene perché hanno portato via papà né perché hanno bruciato i libri: sulle pagelle c’è «Libro e moschetto» e allora che senso ha bruciarli i libri? Ma ora sono nella casa più grande del paese, circondata da libri che mi fanno girare la testa.
– Versati un po’ di tè e versane anche a me una tazza: così intanto ci scaldiamo. È un tè speciale, sai?
Il vecchio parla con una voce roca. Poi le sue labbra si schiudono in un sorriso. Non posso dire se anche i suoi occhi sorridano. Verso il tè, con il timore di combinare un guaio. Poi guardo di sottecchi il vecchio: esile, il volto scavato, dalla pelle quasi diafana, con gli zigomi alti, la fronte rugosa e radi capelli chiari. Gli occhi, di un azzurro ormai quasi bianco, sono messi in risalto da una grosso maglione nero; una coperta gli copre le gambe. So che è cieco. È per questo che sono qui.
– Mi stai guardando, bimba? È il momento di cominciare: apri la libreria, quella sulla sinistra e prendi il terzo libro sul terzo scaffale: il tre è il numero perfetto, come questo tè. Non trovi che sia buonissimo? non dirlo a nessuno. È ancora tè indiano, non il karkadè che si beve ora.
Non capisco bene questa storia del tè, ma la parola India mi ricorda i libri di avventura bruciati e questo tè mi pare buonissimo.
– Su, leggi:

Nel mezzo del cammino di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Leggo, leggo: non capisco tutte le parole di quel lungo libro, ma le parole mi incantano. La maestra e la mamma dicono che sono molto brava a leggere: per fortuna il vecchio non mi corregge mai e vado veloce. Quando alzo lo sguardo vedo che muove le labbra a ripetere dentro di sé quei versi, che sa a memoria. Ma la voce, la voce di qualcuno che leggesse era un’altra cosa. Questo mi aveva detto la mamma, quando mi aveva parlato di quello che avrei dovuto fare. La moglie bussa alla porta. La lettura si interrompe: peccato.
È ora che tu vada: sono tre ore che stai leggendo. Anselmo non sarebbe mai sazio di letture, ma per oggi basta. Ti aspettiamo volentieri domani, so già che tua mamma è d’accordo.
Il vecchio mi sorride e io di ricambio, anche se so che non mi vede. La donna sulla porta mi dona un uovo fresco: «Questo è per te. Mangialo, sei pelle e ossa».
Mi incammino con passo veloce verso casa: l’aria è fredda e inizia già a calare la sera, in questo paesino di montagna dove le ombre si fanno lunghe troppo presto, il sole nascosto dalle montagne innevate. Corro, pensando che un giorno me ne andrò di qui, ma intanto sono felice: corro sull’acciottolato che porta verso la parte alta del paese, attraverso il ponticello di legno che separa Torrazza dalle vie dove sorgono le ville. Corro per la felicità, di quel pomeriggio passato al caldo, a leggere, rimasticando il sapore del tè e di quelle parole così difficili e che pure mi sembra di avere ancora dentro. Felice, come non lo sono da molto, col pensiero che corre più veloce dei miei piedi infreddoliti nei duri zoccoli di legno. Parole nuove mi si affacciano alla mente: «Cammino oscuro,/ un uovo nella mano,/ dalla finestra un lume». Ho sempre scritto quello che mi passava per la mente, ma ora ho tante nuove parole! Vedo la luce di casa, sono affaticata dall’ultima salita, ma vorrei ripetere quello che ho letto, magari riscriverlo sul mio quadernetto.
A casa la mamma mi accoglie nella cucina poco illuminata: nella culla la mia sorellina dorme ciucciando un panno leggermente zuccherato e i miei due fratelli seduti accanto al camino giocano a lanciarvi piccoli legnetti, parlottando tra loro.
– Ti ho portato un uovo, mamma, un uovo fresco.
– È tuo. È il primo frutto del tuo lavoro. Noi abbiamo le nostre galline e quello che ci viene dal mio lavoro. Anche se con gli uomini in guerra nascono pochi bambini e quei pochi si ammalano. Ma il Signore non vorrà far continuare così a lungo questa strage.
Quante volte ho sentito la mamma invocare il Signore e il papà scuotere la testa. Poi il papà era stato portato via, ma la mamma non si era arrabbiata con lui. Anzi aveva detto all’uomo con la camicia nera che preferiva che i suoi figli non facessero parte dei gruppi ginnici scolastici: «Tanto», aveva detto, «correvano già tutto il tempo». Per un po’ mi era dispiaciuto di non far parte del gruppo con gli altri e ai miei fratelli ancora di più: ci chiamavano i figli dell’anarchico e ci lasciavano soli. Ma la mamma non ci aveva neppure ascoltati, come faceva sempre quando era certa delle sue ragioni. E infatti i bambini del paese si erano stancati di quelle divise e di quelle parate. Siamo tornati a far parte della banda, io e i miei fratelli, e io sono anche ben considerata nel gruppo: se non fossi femmina, sarei il capo.
Scrivo queste cose mentre mangio il mio uovo, così, crudo, bevendolo da un piccolo buco. Ora lo ripongo in una cesta: ci sono già dei gusci, pronti a diventare, con le foglie delle pannocchie, marionette. Questo guscio si chiamerà Dante.

Ho quasi assistito a un parto: la mamma mi ha portata con sé in una casa povera per aiutarla e dalla soglia ho intravisto quello che accadeva: «Un urlo più forte,/ un pianto, nel rosso/ una nuova vita».
Le parole ora sono la mia vita: ogni pomeriggio si ripete il rito della lettura, libri che a volte continuano per giorni e mi portano in luoghi mai visti, la Francia, la Russia, l’America persino, così lontana e così vietata. Ogni sera esco dalla casa del vecchio, ripetendo le parole che ho appena letto, ballandoci sopra come fossero musica. Ogni sera un guscio si aggiunge agli altri, con un nuovo nome, autore o personaggio.
È l’inverno più bello, anche se tutti attorno a me sono tristi, tristi per la guerra. Ma io ogni pomeriggio verso il tè, lascio che il calore della bevanda calda e il tepore della sala agiscano sul mio corpo e poi prendo il libro che mi indica il vecchio cieco. E io divento le parole che leggo.
Un giorno il vecchio mi appare particolarmente stanco. Mi indica con la solita precisione un testo. Il testo non è solo in italiano, ma in strani segni che non ho mai visto. Non è la prima volta che leggo libri con testo a fronte in alfabeti strani: ho visto l’antico greco, l’ebraico della Bibbia.
Ho ancora in mente i versi:
«Anche i dolori sono, dopo lungo tempo, una gioia, per chi ricorda tutto ciò che ha passato e sopportato».
Quando li avevo letti, il vecchio mi aveva sorriso, spiegandomi che, a volte, certe parole si capiscono solo vivendo.
E ancora: «Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa».
Il vecchio allora aveva sospirato, sussurrando: «Ci mancava anche la guerra, a mietere le generazioni».
C’erano stati libri segreti, che il vecchio teneva nascosti. Mi aveva fatto promettere di non dirlo a nessuno: appartenevano ai paesi nemici, e poi ridendo, roco, amareggiato, aveva aggiunto: «Come se le parole potessero appartenere…» e si era fermato. Lì avevo scoperto che potevano esserci uomini come topi o parole che si irradiavano come pura fantasia: «Prato distenditi verde/ tappezza il fondo dei giorni./ Arcobaleno dà un arco ai veloci corsieri degli anni./ Vedete, il cielo ha noia delle stelle!/ Da soli intessiamo i nostri canti».
Ma i segni di questo libro sembrano pitture:
– Questa è un’antica lirica giapponese: è un genere che si chiama haiku.
Mi piace subito, per la carta leggera su cui sono scritti e per la brevità dei versi. Sono come quelli che mi invento la sera, mentre torno a casa o mentre cullo mia sorella.
– Leggi a pagina 33.
– «Stanco/ entrando in una locanda/ fiori di glicine».
Il vecchio mi dice una cosa strana: vuole che il libro lo tenga io perché lui non entrerà più in una locanda coi fiori di glicine. Il grazie che dico è troppo sommesso: vorrei abbracciarlo, ma non riesco.
La mattina sento le campane della chiesa suonare a morto. Non ho dubbi e stringo al petto il libro. Vado con la mamma a porgere le condoglianze alla vedova: per la prima volta vedo un morto.
Intorno mi turbinano le parole, i pomeriggi passati a leggere e poi le serate a ricordare.
Ho trovato dei fiori di glicine, nella casa vicino al ponte: li ho presi, tra le grida del padrone, e li ho portati sulla sua tomba: «Colori nel ricordo/ respiro spento/ le parole per sempre».

Grazia si scuote: forse si è assopita. Forse ha sognato. Le parole la circondano: anche quelle che né lei né sua nonna hanno compreso sono lì con loro, gusci d’uovo pieni di nutrimento.
«Non vedo l’ora di leggere.»
Un’unica voce, attraverso gli anni, immutata felicità, che ti dà vita, nonostante tutto.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010