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18ª edizione - (2015)

I colori della luce

Anno 1267

Questo fu l’anno in cui ci svegliammo per la prima volta, non vedevamo ancora nulla di ciò che ci circondava, ci guardavamo attorno in cerca di risposte; nulla, solo oscurità, solitudine e desolazione.
Per la prima volta ci sentimmo confusi, non sapevamo né chi fossimo né dove ci trovassimo e la tristezza ci pervase.
Improvvisamente davanti a noi apparve una luce, quasi accecante e un tepore caldo e confortante si diffuse in noi; non eravamo più smarriti, ma colmi di gioia. Terminato il suo compito, quell’irradiazione di felicità si allontanò lentamente, non potemmo fare nulla per fermarla, potevamo unicamente osservarla con malinconia, sapendo che sarebbe passato molto tempo prima di rivedere tale meraviglia. Solo allora capimmo ciò per cui eravamo stati creati.
Come un tenero bocciolo primaverile ci schiudemmo e ci aprimmo a un nuovo mondo; solo allora li vedemmo: luci e colori.
È passato qualche anno dal nostro risveglio, io e il mio gemello eravamo due gemme brillanti, appartenenti a un semplice ragazzetto che i genitori avevano chiamato Ambrogio di Bondone.
Un bambino allegro e vivace; spesso le persone si complimentavano con lui guardandoci, descrivendoci come vivaci e curiosi, non erano occhi da contadino.
Infatti fin da subito ci interessammo a ciò che ci circondava.
Abitando in un luogo di campagna chiamato Vespignano nel Mugello, eravamo spesso a contatto con la natura, soprattutto perché il piccolo Ambrogio apparteneva a una famiglia contadina, perciò passavamo la gran parte del suo tempo all’aria aperta.
Ci piaceva osservare le fronde scompigliate dal vento, il sole che si alza, mutando il colore del cielo, i monti in lontananza più o meno visibili a seconda del tempo favorevole o non, la verde erba, rigogliosa e danzante, i fiori selvatici e i loro colori sgargianti, le nuvole, soffici e leggere e il gregge che solitamente doveva portare al pascolo, che gli ricordava quelle forme aeree.
Non una pecora era uguale all’altra, cambiando spesso posa e posizione.
Sapevamo che i meravigliosi aspetti della natura colpivano anche la mente del giovane Ambrogio, e un giorno, non resistendo più alla tentazione di far vedere agli altri la bellezza che lui vedeva, decise di ritrarla.
Quasi ogni giorno capitava che schizzasse qualcosa, qualunque cosa, dai semplici oggetti ai paesaggi, ma ciò da cui era più attratto era proprio il gregge, con il quale passava molto tempo, così pensava come trasmettere l’idea del movimento degli animali su di una superficie piatta e come dare loro un’idea di realtà.
Una mattina, proprio mentre era intento a ritrarre le pecore, sentì uno sguardo osservare le sue mani da dietro le sue spalle. Ci voltammo e incontrammo lo sguardo di un uomo sulla quarantina, con profondi occhi scuri, osservammo poi più attentamente il suo viso: aveva un naso allungato e, a nostro parere, una buffa e folta barbetta; appena ci notò, si concentrò su di noi.
Ambrogio, sorpreso, si alzò in piedi facendo cadere ciò che aveva in mano. Vedemmo il misterioso uomo chinarsi e sollevare gli schizzi, iniziando come a studiarli uno a uno attentamente. Sentivamo nei pensieri di Ambrogio la sua confusione e sorpresa, non sapeva cosa fare e perciò rimase fermo immobile.
Dopo qualche minuto, lo sconosciuto tornò a osservarci, chiese ad Ambrogio qualche informazione come il suo nome e dove abitasse; solo alla fine si presentò, scusandosi per la sua scortesia, come Cimabue, con un sereno sorriso. L’ultima domanda che gli pose fu riguardo alla volontà di migliorarsi, imparando a rendere vero ciò che vedeva. Solo allora ci illuminammo colpiti dalla gioia, Cimabue sorrise nuovamente guardandoci e chiese quindi ad Ambrogio di accompagnarlo dai suoi genitori.
Al settimo cielo, così fece; inizialmente il padre era sorpreso della visita di un uomo del genere, un’artista a quanto avevamo capito.
Dopo aver ascoltato di nascosto la loro conversazione e aver capito l’iniziale avversione del padre che lo voleva a lavorare con lui, ci accorgemmo che Ambrogio guardava stupito quegli schizzi che tramite noi era riuscito a creare; solo allora prese la decisione più importante della sua vita. Noi eravamo veramente contenti di ciò che stava per accadere: vedere e imparare cose nuove, cose che in campagna non ci potevano essere.
Qualche giorno dopo, durante il viaggio, vedevamo le case, gli alberi e il gregge allontanarsi a gran velocità, ma dandoci il tempo di dar loro un’ultima occhiata per salutarli per l’ultima volta.
Arrivati a Roma, ci sorprendemmo di ciò che vedevamo e Ambrogio era del nostro stesso parere; non c’era più la campagna, le vie non erano più solo sterrate e contornate d’ erba, ma ora alcune erano lastricate e molto più pulite. Le semplici case erano sostituite da costruzioni in pietra. Muovendoci per queste vie, vedevamo di tutto e venivamo osservati da molti durante il nostro passaggio e poi alcune persone iniziavano a parlottare tra loro lanciando un’ occhiata a Cimabue; a quanto pare quel pittore era famoso.
Non scorderemo mai la prima volta che entrammo nella bottega.
Vi era un gran via vai di ragazzi e uomini di diversa età, molto indaffarati e intenti a varie attività, come decorare qualche pala o semplicemente creare nuovi colori; quest’ultima fu la prima cosa che ci venne insegnata. I mesi passavano e Ambrogio era sempre più felice di imparare da tanta bellezza, di ottenere la sfarzosità e la preziosità di un’immagine semplicemente accostando i colori in varie forme, e ammirava la regalità conferita alle figure stagliate sui fondi dorati.
Un giorno Cimabue venne verso Ambrogio e noi lo osservammo nella sua vera immagine, totalmente diverso dal primo nostro incontro: capelli e barba scompigliati e mani sporche di colore; mai avremmo immaginato che un uomo distinto come lui potesse ridursi in simili condizioni. Cimabue chiese al giovane di interrompere quello che stava facendo e di schizzare su alcuni fogli qualsiasi cosa gli venisse in mente; in questo periodo avevamo osservato molte volte il lavoro dei suoi colleghi e grazie a questo avevamo appreso molto. Una volta eseguiti gli schizzi, li consegnò al maestro che li scorreva sorridendo, ma a un certo punto si bloccò osservando qualcosa, ci scrutò e chiese ad Ambrogio sbalordito: «Com’è possibile che tu riesca a disegnare un cerchio perfetto?».
Il giovane non sapeva cosa rispondere , lo aveva fatto e basta.
Da quel momento i suoi compiti cambiarono, eseguendo lavori sempre più complessi.
Gli anni passavano e Ambrogio crebbe, soprattutto artisticamente e questo lo sapeva.
Per mettersi alla prova un giorno decise di fare uno scherzo al suo maestro, disegnando su di una semplice opera una mosca e attese per vedere la sua reazione.
Cimabue vedendola cercò di scacciarla e solo allora Ambrogio scoppiò in un fragorosa e contagiosa risata; capendo l’accaduto, anche il maestro rise e prese da parte il ragazzo dicendogli che oramai avrebbe potuto fondare una propria bottega poiché in bravura lo aveva ormai superato.
Passarono altri anni e l’aspetto di Ambrogio cambiò nuovamente, ma in noi era rimasta la stessa curiosità mentre la vivacità che ci caratterizzava si era ormai affievolita.
Un giorno Ambrogio, ora conosciuto come Giotto, venne chiamato a Padova per decorare una cappella privata finanziata da un uomo di nome Enrico Scrovegni, nell’anno 1303.
Da Firenze viaggiammo quindi fino in Veneto per raggiungerlo, insieme alla nostra bottega. Durante un colloquio privato con il committente, questi chiese ad Ambrogio di inserirlo in una rappresentazione del paradiso, così che potesse sperare che a suo padre Reginaldo venissero perdonati i peccati poiché l’usura faceva parte di questi ed era considerata una grave colpa.
Giotto accettò questa condizione, anche perché non poteva rifiutarsi; durante la decorazione sentivamo i pensieri di Ambrogio riguardo a ciò che gli era stato chiesto di fare.
In un certo senso poteva capire la preoccupazione di Enrico per il padre, anche a lui capitava spesso di ripensare al proprio, ormai morto da tempo e provava rimorso per non essergli stato vicino nei suoi ultimi momenti di vita.
Dall’inizio dei lavori erano passati ormai tre anni e finalmente si poteva godere di tutto lo splendore di quella cappella, forse una delle opere più belle compiute fino a quel momento.
Noi ci muovevamo su ogni elemento per osservare il tutto. Sembrava di essere in un grande teatro con numerosi attori sotto un cielo stellato, ma l’affresco più bello era quello dell’entrata, con il Paradiso, l’Inferno e la rappresentazione del Dio giudice
All’apertura della cappella vennero invitati i membri della famiglia Scrovegni. Osservandoli mentre ammiravano il lavoro di Ambrogio, capimmo fino a che livello era arrivata la sua bravura. Si giravano tutti attorno per vedere ogni cosa, numerosi elementi e infiniti dettagli.
Alcuni si soffermarono sulle finte lastre di marmo e altri notarono con stupore che i vizi e le virtù che decoravano la fascia inferiore parevano vere e proprie statue.
Ci soffermammo poi su di un bambino, di circa dieci anni, volto di spalle, intento ad ammirare l’affresco che circondava l’entrata. Giotto si avvicinò cautamente e silenziosamente per non disturbarlo e con finta indifferenza ci posammo su di lui. Corporatura esile e pelle chiara, capelli scuri e brizzolati.
Una cosa ci colpì: i suoi occhi. Scuri e vivaci, conoscevamo bene quella vivacità, quella luce. La stessa della quale eravamo pervasi ormai molti anni fa, ma mai del tutto svanita.
Giotto allora si avvicinò ancora di più, si abbassò all’altezza del bambino e gli chiese: «Dimmi, ti piace?». Solo allora il piccolo si volse verso l’uomo, egli si rivide in quel ragazzino, aveva i suoi stessi occhi: occhi d’artista.
Il bambino arrossì lievemente, le sue pupille si dilatarono e attraverso di esse, se guardavi attentamente, potevi cogliere mille colori trasformarsi in luce; si aprì poi nel suo viso un largo e brillante sorriso.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010