Come pietre di zaffiro stellato
Avete presente tutte le storie che ci venivano raccontate da bambini, colme di maghi e streghe dai poteri straordinari, pronti a lottare contro demoni e mostri paurosi, armati solo di semplici spade angeliche e di un pizzico di coraggio per difendere giovani ragazze indifese? Tutte quelle belle storie in cui la realtà si mischia alla fantasia facendoti credere che esista davvero una differenza consistente tra bene e male, tra persone buone e cattive? Ecco. Io non ho mai smesso di credere che tutte quelle fantastiche storie siano vere.
23 gennaio
Aprii di colpo gli occhi ansimando. Ero accaldata, sudata, imprigionata dal pigiama ormai completamente bagnato, dalle coperte che mi avvolgevano, troppo strette attorno alla vita. Le pareti della camera parevano ogni giorno più strette attorno a me, rimpicciolendo col passare del tempo sempre più lo spazio vitale di quella cella. Mi misi in fretta a sedere respirando profondamente. Fissai lo specchio appeso sul muro di fronte al letto e guardai l’immagine riflessa nel vetro. Mi cambiai i vestiti, indossando la mia solita tuta grigia e nera, in netto contrasto con tutto ciò che apparteneva a quel posto, dai muri immacolati alle persone vestite di bianco, agli oggetti, candidi e puri. Uscii velocemente dalla stanza, inoltrandomi nei bui corridoi della notte nera. Amavo il nero. E lì era tutto troppo dannatamente bianco.
Odiavo tutto di quel luogo. Odiavo il colore dei muri, pallidi, sbiaditi, inespressivi. Deboli. Proprio come tutti quelli che vivevano lì dentro, come quelli che erano stesi su quei bianchi letti funebri.
Odiavo il cibo, se si può definire tale; si trattava più che altro di gomma mista a poltiglia di vario genere, ma era abitudine comune chiamarlo cibo. Faceva sentire tutti un po’ vivi, un po’più normali, un po’ più a casa. Come appartenenti alla stessa famiglia. Ma io non volevo farne parte.
Odiavo tutti loro. Odiavo anche l’odore di quel posto, mi dava la nausea. Non riuscivo ad abituarmi, pur stando dentro per ore e ore di fila continuavo a percepirlo con disgusto. Fenolo ovunque: presente in ogni stanza, impregnato nei muri, negli abiti delle persone. E anche nelle loro anime.
Era questo uno dei motivi principali per cui avevo deciso di passare la maggior parte delle mie giornate fuori in giardino, rintanata in uno dei tanti nascondigli che avevo scoperto durante le mie quotidiane esplorazioni. Lontano da tutto e da tutti. Lontano da tutte quelle voci che mi dicevano cosa fosse giusto o sbagliato fare. Lontano da tutte quelle persone troppo dolci e troppo gentili, sempre pronte ad aiutare chiunque avesse bisogno. Menzogne. e io non volevo essere aiutata. Lontano da quegli odori insopportabili che mi facevano alterare.
E quando succedeva ero pericolosa, facevo davvero paura, me ne rendevo conto. Perdevo completamente il controllo.
Le giornate erano lunghe e interminabili, noiose; la maggior parte del mio tempo libero la passavo a leggere o a riposare: la notte non è fatta per dormire, ma per vivere.
La notte appartiene a chi la vive. È di notte, mentre tutti dormono, che si diventa davvero potenti, i padroni del mondo. Perché tutte le cose che temiamo di fare durante il giorno, ci appaiono più sensate di notte. Perché tutte le paure che ci assalgono durante il giorno ci terrorizzano di meno, la notte. Perché è più facile essere noi stessi quando non dobbiamo fingere di fronte a nessuno.
L’unica cosa bella di quel luogo era la biblioteca.
Stanza 207. L’unico posto in cui mi sentivo veramente al sicuro.
Passavo lì le giornate quando qualche dolce e benevola infermiera che mi vedeva sgattaiolare fuori di nascosto mi bloccava o quando il tempo era brutto e pioveva. Allora mi rifugiavo nella 207, l’unica che non aveva paura di stare con me e che mi accoglieva sempre, chiunque io fingessi di essere.
Qualunque vita fingessi di vivere. Lei non aveva quel micidiale odore di antisettico che penetrava fin dentro le ossa, no. Lei sapeva di buono. Un profumo misto tra lavanda e muschio che si diffondeva nell’aria, prendendo vita tra gli scaffali. Quel sapore dolce sempre pronto ad accoglierti all’arrivo, dandoti il benvenuto, come se stesse aspettando proprio te. Come se tu fossi davvero unico e speciale.
Era lì che mi stavo dirigendo in tutta fretta quel giovedì mattina, all’una e zero sette.
La Paura mi raggiungeva anche nei sogni, ormai non faceva più parte solo degli incubi. Mi perseguitava. Per questo motivo vivevo di caffeina, aveva preso il posto del sangue nelle mie vene; d’altronde era una delle poche cose che mi concedevano là dentro. Quel Demone feroce mi bramava, sapevo benissimo che la mia mente lo allettava. Desiderava assaporare tutti i miei bei pensieri e degustare le mie più intime fantasie, svuotandomene.
Solo nella 207 non riusciva ad avvicinarsi, quando avevo un libro in mano . Credevo fossero fatti di qualche materia particolare, un misto tra etere e polvere di stelle, uno speciale antidoto contro quel terribile mostro che mi perseguitava. Un po’ come l’acqua santa per i vampiri. Letale. Solo quando mi nascondevo nel mio mondo riuscivo a scappare dal dolore, fuggendo in una realtà parallela, ogni volta differente, riuscendo a essere felice e a vivere in pace.
Quella bella sensazione però durava troppo poco. È stato questo il motivo che mi ha spinto a volerne sempre più.
È iniziato tutto come un assurdo gioco della mia mente: mentre camminavo per la strada o mentre preparavo da mangiare riuscivo a vedere persone diverse da quelle che mi stavano attorno, come se le spogliassi dalla maschera che indossavano. Accadeva anche con i palazzi, gli animali le vetture, con tutto. Era un lavoro che mi costava fatica: dovevo concentrarmi a fondo per smettere di guardare e incominciare a vedere. Pezzettino dopo pezzettino i miei occhi toglievano dalla massa ciò che era in eccesso, lasciando il mondo spoglio di fronte a me. Ripulendolo dalle bugie e lasciando che facesse emergere la realtà. Era qualcosa di terrificante e affascinante al tempo stesso.
Vedere era diventato come un bisogno, una droga di cui non potevo fare a meno. Ma venivo interrotta troppo frequentemente. Per questo iniziai a cercare metodi per far durare più a lungo i miei momenti di concentrazione, metodi per allontanarmi sempre per più tempo dal mondo comune, apparente, ed entrare nella realtà. Un metodo per allontanarmi dall’eterno dolore e raggiungere da sola la felicità.
Non potevo raccontare a nessuno ciò che facevo, mi prendevano per matta, dicevano che deliravo e che dovevo smettere di scherzare, di inventare frottole. Smettere di dire le bugie. Ma io non ho mai mentito. Quelle poche volte che ci avevo provato a rivelare le mie visioni, mi avevano guardato come se fossi stata posseduta da qualche strana razza di demone, ma i demoni si erano impossessati di me.
Anzi, io vedevo e conoscevo verità sul mondo che gli altri ignoravano.
Fu proprio a causa di alcuni di questi che finii qui dentro.
Una prigione che agli occhi di tutti appariva come un ospedale psichiatrico, ma era una prigione. Un luogo dove persone più dotate delle altre venivano portate per essere curate, dove veniva manipolata loro la mente affinché tornassero a essere normali.
Non ho sempre avuto questa dote, ci sono nata, è vero, ma ho dovuto sudare parecchio per imparare a usarla. Mi è costata molta fatica e un duro lavoro di anni e anni. Lavoro che ho iniziato quando ho perso tutto. Quando ho perso tutti. Perché quando vedi scivolare fuori dalla tua vita tutte le persone a te più care e ti rendi conto di rimanere sola, non puoi cercare compagnia se non dentro te stessa.
Perché quando ti rendi conto che nella tua vita non ci sono alti e bassi, ma solo bassi, e che il dolore che provi aumenta giorno dopo giorno e non passa, a quel punto anche tu passi.
E cambi.
Perché per una volta non lasci che sia il mondo attorno a te a continuare a cambiare ma fai partire la spinta da dentro, diventando per tutti anormale. Potevano sostenere che fossi malata, drogata, psicopatica o una pazza furiosa. Ma non lo ero. Potevano curarmi con farmaci micidiali e allontanarmi dalle droghe più potenti in commercio. Ma non ne avevo bisogno. Non essendo malata non potevo essere curata. E comunque nessuno di loro poteva privarmi della mia mente.
Ero sola, come sempre.
Non c’era nessuno in giro per il reparto a quell’ora della notte, per questo mi avventuravo fuori dalla camera spavalda, senza cercare di non essere notata da nessuno. Presi dalla bacheca la copia delle chiavi e mi diressi verso la porta, facendo scattare la vecchia serratura. Immediatamente l’intenso profumo mi invase, entrando in profondità, negli antri più oscuri e irraggiungibili del mio cuore. Vuoto. Sapeva di felicità. Leggere mi dava felicità. Ero golosa di tutte le pagine che potevo assaporare. Quelli che in assoluto preferivo erano i fantasy: potevo entrare a far parte di mondi diversi, diventando ogni volta protagonista di avventure e storie differenti. Storie e avventure inventate, pure menzogne, che al semplice passaggio dei miei occhi prendevano vita, diventando vere. E io con loro. Diventavo parte di loro, prendendo finalmente vita.
È stato grazie alla lettura dei libri che sono riuscita a sviluppare la mia dote. Dentro di loro non ero più la racconta frottole che tutti descrivevano, quella che viveva in un mondo di menzogne tutto suo, la ragazza paurosa che inventava racconti per mascherare la sua vera identità.
Ero io.
Quella notte però fu diversa. Presi un libro da uno scaffale molto in alto: era vecchio e rovinato, ricoperto da una particolare fodera rossa. Rune dorate erano intagliate sulla superficie. Alcune mi balzarono subito agli occhi, ero in grado di leggerle: forza, protezione, coraggio… Ma quelle che componevano il titolo erano più complesse. Ci misi un po’ a decifrarle. Non poteva essere.
Fu in quel momento che sentii una voce alle mie spalle.
«L’hai trovato alla fine».
Mi voltai, spaventata dal suono della voce che aveva appena parlato. Stringevo stretto tra le mani il libro, come se qualcuno volesse rubarmelo. Mi facevano male i palmi.
Il ragazzo che mi stava di fronte era alto, un metro e ottanta e un po’ di più, magro, bello. Aveva la carnagione scura rispetto ai soliti pallidi cadaveri che vedevo girovagare lì dentro: i capelli castani erano corti, eppure lasciavano intravedere qualche ricciolo qua e là. Naso e bocca perfetti. Indossava vestiti blu, una maglietta aderente che accarezzava dolcemente la forma del petto, ricadeva su pantaloni sportivi, pieni di tasche, di una tonalità simile a quella della maglia. Furono i suoi occhi a togliermi il respiro. Erano grandi, scuri; come due pietre di zaffiro stellato nero, uniche e rare. Brillavano di luce propria nell’oscurità della stanza, proprio come la pietra fa nella grotta. Due pozzi neri, profondi, come i fondali misteriosi del mare.
Vedere il mare in occhi neri. Forse avevano ragione e io ero davvero matta.
«E tu chi sei?» chiesi acida. Lo dicevano tutti che ero acida. Sorrise e la notte si illuminò.
«Dimmelo tu chi vuoi che io sia».
Gli assomigliava talmente tanto, il suono della voce, i gesti, i movimenti, i modi di fare e di rispondere. Ma no. No! Non poteva essere. Lui era andato via, per sempre. Lo avevo accettato. Avevo accettato l’idea che non sarei stata io a indossare all’anulare il suo stesso anello, che non sarei stata io a dormire lungo il suo fianco destro ogni notte per poi svegliarlo ogni mattina con un bacio. Non sarei stata io a baciarlo per il resto della vita. Non sarei stata io a lavargli le magliette e a stirargli camicie, non sarei stata io a preparargli la colazione con il caffè bollente e nemmeno il pranzo e la cena. Niente prosciutto crudo però, lo detestava. Non sarei stata io a chiedergli di appendere i quadri alla parete o di potare le piante prima della primavera. Non sarei stata io a salutarlo ogni mattina prima del lavoro e ogni sera al suo rientro. Non sarei stata io la fortunata a essere amata da lui. Non sarò io quella che baciandolo potrà dirgli quanto lo ama, ma non per questo non lo amerò.
«Che razza di libro è? Perché c’è il mio nome sopra?».
«Leggilo, è bello».
«Di cosa parla?».
«Di te».
«Cosa? Deve essere uno scherzo… Forse un sogno».
Ero sconvolta.
«Aspetta un attimo — aggiunsi — come fai a saperlo? Lo hai letto?».
«Io so tutto di te, ogni singolo dettaglio della tua vita. So quello che ti è successo e quello che ti succederà. So quello che hai passato e quanto hai sofferto, so chi hai trovato e chi hai perso, so quello che hai pensato, che pensi e che penserai. So quanto hai sofferto e quanto la vita è stata dura con te, so quanto hai amato e quanto poco sei stata amata. E so già come questa storia finirà.» e con un gesto del mento indicò il libro che tenevo tra le mani.
«Ho trovato più persone di quante ne ho perse. Ho sofferto meno di quanto io abbia riso. Ho visto il mondo e la mia vita sempre chiaramente e non ho mai avuto bisogno di nessuno se non di me stessa. Tu non sai davvero niente di me».
«A chi stai dicendo queste cose? Chi stai cercando di convincere? Me, che conosco già la verità o te?» raccolse il libro da terra; lo avevo lasciato cadere e nemmeno me ne ero accorta. Me lo porse gentilmente sorridendo.
«So che vuoi sempre conoscere la realtà delle cose, so che vuoi sempre sapere come sono veramente e come andrà a finire, per poter prendere le tue decisioni in tutta tranquillità. So che hai paura del futuro, del destino, della vita, perché hai paura di perdere anche quel poco che ti è rimasto. Ma ora siediti e leggi, riscopri ogni singolo secondo della tua vita, tutto ciò che ti è stato insegnato e che hai imparato con gli anni. E intanto pensa: è davvero questo che ti ha insegnato? È davvero questo quello che è giusto fare? Scappare? Arriva a questo punto, al punto in cui siamo io e te ora, qui, e poi dimmi: vuoi davvero andare avanti e sapere come andrà a finire, per sapere cosa fare per non sbagliare ancora? Per non cadere più e non farti male?».
Scoppiai in lacrime. Erano mesi che non piangevo più. Anni forse. Non me lo ricordavo.
Non è vero. Me lo ricordavo bene, quand’era stata l’ultima volta che avevo pianto. Dal giorno in cui persi davvero tutto. Il giorno in cui persi me. Mi accasciai sul divano rannicchiata tra le ginocchia.
«Quando perdiamo certe cose, o persone, non c’è nulla che si possa fare per riaverle indietro» dissi, con la voce spezzata tra un singhiozzo e l’altro. «Bisogna andare avanti, per forza. Farsi coraggio e accettare il dolore, superarlo. Ognuno reagisce a modo suo, però».
Mi strinse tra le braccia, quelle braccia forti e sicure che mi facevano sentire protetta. Le uniche in grado di farmi sentire così. Quanto le avevo amate. Improvvisamente la lavanda e il muschio sparirono e mi ritrovai a respirare quel profumo, il suo profumo. Quello che per molto tempo mi aveva invaso, inebriandomi la mente, le ossa. Ogni singola parte di me. Quel profumo che di colpo mi aveva abbandonato, ma che io non avevo mai dimenticato. E che ora era di nuovo accanto a me.
«Dire addio alle cose a cui teniamo per nostra scelta è più difficile che salutarle perché siamo costretti».
«Lo so bene — mi disse in un sussurro all’orecchio — ma io ora sono qui con te».
Aprii di colpo gli occhi ansimando. Ero accaldata, sudata, imprigionata dal pigiama ormai completamente bagnato, dalle coperte che mi avvolgevano, troppo strette attorno alla vita. Le pareti della camera parevano ogni attimo più strette attorno a me, rimpicciolendo col passare del tempo sempre più lo spazio vitale di quella cella. Mi misi in fretta a sedere respirando profondamente. Fissai lo specchio appeso sul muro di fronte al letto e vidi la mia immagine riflessa nel vetro.
Avevo addosso la mia tuta. Per la prima volta da quando ero lì fissai attentamente il mio riflesso. Era vero, gli assomigliavo molto. Ero stanca, avevo un aspetto sconvolto. Ma c’era qualcosa di davvero vivo in me, qualcosa che gli altri che mi stavano attorno non avevano. Vedevo il mare, tempestoso e burrascoso che mi si agitava dentro. Bastava osservare attentamente i miei occhi per vederlo agitarsi. Neri neri come la notte. Forse anche un po’ di più. Ma c’era qualcos’altro. C’era anche la luce delle stelle. Stelle che brillano nel cielo, sempre presenti anche quando non le vediamo. Ma loro ci vedono e vedono ciò che ci succede. Soffrono con noi, vivono con noi. E di notte si fanno belle per chi le guarda, brillando nella notte nera. Come due pietre di zaffiro stellato.
Molti sostengono che il nero sia il colore della cattiveria, delle menzogne. Delle tenebre che oscurano la luce della verità. Delle bugie che uccidono la realtà. Mentre il bianco è il colore della perfezione, della purezza. Della sincerità. Ma nessuno ha mai guardato nel profondo, smascherando le credenze popolari. Io sì. Io ho usato la mia capacità molto criticata per un’ultima volta e, pezzettino dopo pezzettino, ho smascherato il bianco.
Non è altro, infatti, che l’insieme di tutti i colori e delle loro sfumature e tonalità. Non è qualcosa di preciso. Mentre il nero è l’assenza completa di colore. Quale dei due, allora, mente fingendo di essere ciò che in realtà non è? Chi dei due nasconde dentro di sé una serie infinita di accettabili bugie e chi invece appare al mondo nella sua fragile semplicità?
La verità è che la società ha paura di sapere la verità nuda e cruda, perché spesso può far male. Preferisce allora credere in una serie di accettabili bugie comuni che nella loro illusione rendono la vita più facile e felice.
Perché dopo tutto, a volte, l’ignoranza è una benedizione.
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