Il seminatore - Interpretazione libera e originale del quadro Il seminatore di Vincent Van Gogh
Così come sorgeva l’alba, il seminatore si levava. Abbandonava il giaciglio, consumava una silenziosa colazione, e si dirigeva altrettanto silenziosamente verso il campo. L’unico rumore a circondarlo era quello dei suoi pensieri. Fitti, confusi, rossi e bianchi.
Il seminatore camminava e respirava. Respirava il verde e il giallo.
Aveva un modo tutto suo di seminare. Un passo, un respiro: i movimenti si susseguivano l’un l’altro freneticamente. Un passo, un respiro, e le orecchie ben tese, per non perdere le parole che il vento gli sussurrava placidamente.
Gettava i semi al vento, seguendo una sorta di danza. Ruotava su se stesso e piroettava come una ballerina sul palco del teatro, attenta nel non commettere errori, ansiosa dell’applauso del pubblico; alle volte però inciampava sui suoi passi, perdendo l’equilibrio e cadendo sul manto di spighe soffici; a quel punto, invece di rialzarsi, stava lì, fermo, in silenzio. Godeva nel sentire il calore del sole che gli bruciava prepotente la pelle; un rosso focoso e ardente.
Salutava i merli, e accarezzava le spighe così come un padre accarezza le figlie prima che si addormentino; in quel gesto trasmetteva tutto il suo amore, la sua passione, la sua devozione.
Giunto il meriggio, si sedeva sopra le radici umide del salice; le loro chiacchierate erano lunghe e intime.
«Ogni mattina io apro gli occhi — diceva il seminatore — e mi rendo conto che sono uomo, sono vivo, sono io. Esisto ancora, e sono parte della mia realtà, di tutto ciò che io ho creato e che è frutto del mio lavoro. Perché allora mi sembra che in tutto questo manchi qualcosa?».
Il salice non trovava una risposta alla sua domanda, ma si limitava ad ascoltare e annuire con la pacatezza e la disponibilità che solo un vero amico sa offrire.
Arrivava l’ora del tramonto.
Il seminatore lo chiamava morte: era la fine di una storia che lui aveva vissuto.
Nero.
E assisteva alla morte ogni giorno: si sedeva sopra quei manti di spighe e, respirando, osservava. In quel momento tutto doveva essere in silenzio e in quiete; solo la morte poteva muoversi e scivolare via.
Come le acque di un fiume terminano e si rovesciano in una cascata, dando luogo a uno spettacolo di caos frusciante, blu e profondo, così la luce scompariva agli occhi del seminatore, alla realtà del campo e alla vita del mondo.
Nero.
Si levava l’alba, e il seminatore si svegliava. I suoi pensieri echeggiavano fra le mura della casa, e quasi lo stordivano.
Pensava ai colori, a quei bellissimi colori che davano alla vita una strana prospettiva, irregolare, distorta, eppure così vorticosa, a toni caldi e freddi.
Pensava alla solitudine. La solitudine non gli era mai pesata, anzi, gli piaceva: stando solo riusciva a cogliere ciò che altri non riuscivano a percepire. Lui respirava la natura e la traduceva in qualcosa di simile a un sogno. Plasmava la sua realtà a piacimento e ciò lo dilettava tanto che non avrebbe mai avuto bisogno di un compagno.
All’arrivo della morte, dava le spalle al sole e, come un maestro d’orchestra, muoveva le braccia in su e in giù dirigendo quel grande complesso di fenomeni che era la natura. Era la sinfonia della mondo, del campo, del suo campo. E allora le spighe diventavano violini, le fronde arpe, il vento un flauto e il concerto terminava con la fine del crepuscolo.
Ma qualcosa mancava ancora, pensava il seminatore.
Lo spettacolo della nascita del firmamento compensava la morte.
«Una vita per una vita» rifletteva.
Perché una cosa avesse inizio, un’altra doveva avere fine. Questo era il senso dell’esistenza, dettata da quell’effimero concetto che il seminatore chiamava tempo.
Tempo?
Il tempo che trasforma, modella, cambia tutto; che cos’è in fondo?
Siamo noi stessi, pensava il seminatore. Il tempo siamo noi stessi, e vivendo lo realizziamo. È l’unica cosa che possediamo, è l’unica cosa che perdiamo.
Il seminatore non aveva perso il proprio: lo donava ogni giorno, e farlo lo rendeva felice.
Lo donava al suo campo, ai suoi semi, alle sue spighe. Ma soprattutto, donava il suo tempo a se stesso.
La vita del seminatore continuava così, giorno dopo giorno.
I suoi pensieri creavano i colori e i colori creavano la vita.
Al sorgere dell’ultimo sole, il seminatore non si alzò. Rimase immobile come il suo amico salice. L’unica cosa che si muoveva erano i suoi pensieri.
Pensò a sua madre che gli aveva dato la vita.
Pensò al suo campo che gli aveva permesso la vita.
Pensò al salice, alle spighe, al vento e ai merli, che gli avevano riempito la vita.
Pensò a i suoi semi: aveva seminato la sua vita in quel campo, e presto ne sarebbero nati i frutti. Il seminatore aveva trovato la risposta alla domanda che aveva posto al salice.
Ora era tranquillo.
Aspettò il tramonto. Poi il crepuscolo. Con la fine del crepuscolo, i suoi pensieri svanirono.
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