Ottocento
Credetemi, non ne troverete di alberghi così, nemmeno in questa città, e stiamo parlando di Parigi, la capitale di Francia, la città dell’amore.
Forse sì, se state cercando un hotel con chef specializzati, grandi cucine, grandi sale, un’infermeria particolarmente attrezzata e un medico preparato su tutto, o comunque su molto… beh, penso sia chiaro quello che voglio dire; oppure se state cercando un albergo con camere grandi e lussuose, un giardino con tanto di fontane, beh, vi dico una cosa, se stavate cercando quello forse avete sbagliato hotel.
Ma se invece quello che cercate è la melodia, l’arte, la musica tra i sobborghi parigini, allora siete venuti nel posto giusto; perché non vi capiterà mai più, dovunque andrete, di stare con le chiappe su delle poltrone e udire un simile miracolo dell’arte e una tale meraviglia. Non ce l’avrete più l’occasione di sentire la musica nel cuore come la si può sentire qui, in questa sala (che, ammetto, non è al massimo del lusso) da nessun’altra parte potrete sentire il ritmo della melodia degli inimitabili Paris Classic Baaaand!!!
Presentazione di ogni musicista, ognuno fa un passo avanti quando il protagonista chiama il suo nome, musica di pianoforte in sottofondo.
«Al clarinetto Matis Baptiste.»
«Alla chitarra Georges Monteire.»
«All’arpa Philippe Duroy.»
« …E infine al piano… Jacques GM Orange Ottocento: il più grande».
L’attore musicista che sta presentando la band, si toglie la giacca nera dello smoking e si dirige verso la parte anteriore del palcoscenico mantenendosi in una posizione centrale, illuminato da una luce conica; inizia il racconto.
Lo era davvero, il più grande, capito? Se noi suonavamo musica classica, seppur con passione, lui suonava qualcosa, qualcosa che…
Non si può nemmeno descrivere quello che ci faceva con i tasti di quel piano.
Prima che la facesse lui, quella roba non esisteva, va bene?, non la trovavi da nessun’altra parte.
E nel momento in cui si alzava da quel pianoforte, non esisteva più… e non esisteva per sempre… Jacques GM Orange Ottocento.
L’ultima volta che lo vidi era seduto su un cassettone di polvere da sparo, davvero, ed era pure bello grosso, di una grandezza pressappoco così (l’attore allarga le braccia), riposto nel seminterrato dell’albergo, che veniva usata per caricare le pistole in caso di bisogno.
Il perché? Una lunga storia… ma lui diceva sempre: «Se hai una buona storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla, allora non rimani fregato per davvero dalla vita!» e lui ce l’aveva… una buona storia; a ben pensarci incredibile, davvero, ma davvero bella, caspita se era bella, non bastava, era bellissima!
E quel giorno seduto su quel cassettone di polvere da sparo me ne fece dono. Perché per lui, io ero il suo più grande amico, forse l’unico, l’unico che c’era davvero, che non passava, nonostante il tempo e le vacanze; io… eppure ne feci di cazzate, e dalle mie tasche non usciva niente, neanche ad appendermi a testa in giù, diamine, ma quella storia, quella storia rimaneva, lì, fissa nella mia memoria, nel cuore; anche se vendetti il violino, quella storia me la tenni per me, quella storia la custodii molto gelosamente.
Mi rimase dentro al cuore come la musica, la melodia che usciva dai tasti di quel pianoforte che era in quella sala forse da due generazioni, quel pianoforte che Jacques GM Orange Ottocento aveva reso magico.
L’attore esce dal palcoscenico, attacca un assolo di violino, dopodiché, una volta terminato, rientra.
Lo trovò un soldato che si chiamava Jacques D’Orange, il mattino in cui ormai tutto l’albergo si era svuotato dei clienti; giaceva in una scatola di cartone.
Non avrà di certo avuto più di due settimane, eppure non piangeva e non si dimenava, anzi ti guardava silenzioso e tranquillo. Lo avevano lasciato in quello scatolone riposto sul pianoforte in mezzo alla sala da ballo di quell’Hotel, aveva l’aria di essere figlio di un poveraccio, come molti da queste parti d’altronde, per questo forse era stato partorito di nascosto e riposto sul pianoforte, con quali dinamiche, non si può sapere, come non lo si sa, se chi lo ha abbandonato era cliente o si era intrufolato all’interno.
E tutto questo non per cattiveria, per carità, ma per miseria, miseria che ti poteva togliere la vita se non avevi fortuna; e succedeva di trovare bimbi abbandonati, per il semplice fatto che una bocca da sfamare in più non ce la si poteva permettere, proprio per niente. Probabilmente fu quello che capitò a Jacques GM Orange Ottocento, forse chi lo partorì pensò bene di lasciarlo sul piano della sala da ballo nella speranza che un benestante o meglio un riccone si fosse preso cura di lui. La cosa non funzionò proprio del tutto, poiché chi lo portò con sé non era ricco, ma in compenso diventò il pianista più grande di tutti i tempi.
Comunque, Jacques D’Orange lo trovò là e subito cercò qualcosa, un bigliettino, qualsiasi altra cosa che potesse definire chi fosse, ma niente, trovò solo un bigliettino scritto con brutta grafia e sbavata, a malapena si leggeva, GM c’era scritto, e poi non si leggeva nient’altro.
Il vecchio Jacques lo interpretò come un segno di Dio, così decise che quelle due lettere avrebbero fatto parte del suo nome, poiché erano riconducibili alle parole inglesi, apprese da una guerra contro l’Inghilterra, Good’s Miracle.
Lui dava molto significato alle cose, alla vita in generale, e infine, gli piacevano un sacco i nomi, sì proprio i nomi, quelli che si danno alle persone, come Matis o Philippe, beh avete capito. Quando leggeva il giornale, il vecchio se ne fregava quasi del tutto dei fatti, ma s’appassionava dei nomi delle persone invece, oppure dei nomi che davano alle nuove armi o mezzi da guerra; dopotutto egli l’aveva fatta, la guerra, aveva sparato, ucciso e difeso la sua patria, era un uomo onorevole, lui.
Tanto per cominciare diede al piccolo il suo nome (Jacques Orange) e tra nome e cognome ci mise le due lettere GM puntate.
«Jacques GM Orange, un gran bel nome! — disse infine il vecchio D’Orange — però gli manca qualcosa, come un gran finale, che lo faccia apparire fin da subito un grande, un valoroso, perché di certo farà strada nella vita».
«Puoi chiamarlo Gennaio — disse Georges Foresteir, che faceva il cameriere — lo hai trovato in Gennaio, chiamalo così».
Jacques ci rifletté un po’ su, poi sorridendogli rispose: «Non hai avuto un’idea cattiva Georges. L’ho trovato alla fine di questo secolo, quindi lo chiamerò Ottocento, così che se diventerà un grande porti il nome del secolo in cui è nato».
«Ottocento? Ma è pur sempre un numero!».
«Era pur sempre un numero, adesso è un nome: Jacques GM Orange Ottocento».
«È perfetto».
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