Un’esperienza di lettura
«A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave».
«No, è impazzito! — dissero tutti quanti — sta scherzando».
E invece Novecento non stava affatto scherzando.
Dopo trentadue anni vissuti su quella nave, lui voleva scendere. Sentiva questo bisogno interiore, questa voglia da soddisfare, che non aveva mai avuto il coraggio di confidare a nessuno… o quasi.
Sì, in effetti esisteva un qualcheduno che conoscesse davvero fino in fondo Novecento e a cui Novecento confidava ogni cosa.
Novecento non era stato cresciuto da una mamma e da un papà; Lui aveva cresciuto Novecento.
Dalla nascita, per trentadue anni, Lui non l’aveva mai abbandonato, né tantomeno Novecento aveva mai osato fare un passo lontano da lui. Oramai erano diventati come due migliori amici, non due semplici migliori amici, molto altro.
Novecento passava intere giornate a parlare, a confrontarsi con Lui, erano le giornate in cui Novecento si sentiva più felice e soddisfatto.
Lui, invece, non era un tipo di molte parole, ascoltava e non si stancava mai di ascoltare Novecento; parlava davvero molto poco, ma le sue erano parole sagge, messaggi detti segretamente, che solo Novecento poteva capire.
Novecento gli raccontava la sua vita e poi, quando ne aveva bisogno, andava davanti a lui e Lui pazientemente gli dava quelle risposte giuste di cui necessitava. Bastava un istante, bastava che Novecento lo guardasse per sapere già la risposta — ve l’ho detto, Lui è un tipo di poche parole.
Lui era conosciuto da tutti: adulti, anziani, bambini; non esisteva persona al mondo che non lo avesse mai visto, tutti lo amavamo, ma Lui era per pochi, era di pochi.
Solamente in pochi riuscivano a comprendere cosa volesse dire -era un tipo piuttosto strano e anche imprevedibile.
«Non c’è da fidarsi di Lui» dicevano in molti. Sciocchezze!
Vi posso garantire che non è affatto così; Lui è immenso, Lui è sconfinato e Novecento gli aveva affidato la vita. Novecento viveva in simbiosi con Lui.
Lui, il Mare, distesa sconfinata di acqua salata, custodiva tutti i segreti dei marinai, gli unici che davvero potevano capirlo e amarlo. Da quando gli occhi di Novecento si sono aperti sul mare, non è più riuscito a farne a meno.
Perché Novecento avrebbe dovuto scendere?
La risposta ha il sapore di una fesseria, ma io vorrei avervi potuto mostrare il suo volto mentre pronunciava «Devo vedere una cosa laggiù». Il suo sguardo era fisso nel punto in cui il mare si infrangeva proprio davanti al suo oblò, con la mano destra si carezzava il mento, mentre con la sinistra teneva il conto dei giorni che mancavano al compimento del suo piano e tutt’un tratto «Laggiù, devo vedere il mare!».
Suvvia! Com’è mai possibile?
Novecento aveva passato una vita sul mare e ora doveva scendere per vedere il mare; ebbene sì.
Un giorno un contadino gli ha raccontato di non aver mai visto il mare per ben settant’anni e il momento in cui dalla terraferma ha potuto osservare quello spettacolo immenso, gli sembrava gridasse «Banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa».
Quei tre giorni mancanti furono i più lunghi della sua vita, li passò interamente a progettare il suo piano. Arrivò quel giorno, atteso da lui, quanto da tutto l’equipaggio.
Novecento fece per scendere, ma dopo appena tre gradini si fermò a contemplare New York. Tutti erano con il fiato sospeso, quando Novecento tornò indietro, sulla sua nave. Da una nave puoi anche scendere, ma dall’oceano, dalla tua vita, da quella proprio no.
Novecento si precipitò affannosamente nel salotto della nave, la Virginian — mi sembra si chiamasse così — e prese a suonare magistralmente il pianoforte.
Quel ragazzo aveva delle doti innate, eccezionali, eppure nessuno, eccetto l’equipaggio, aveva la fortuna di sentirlo suonare.
La vita di Novecento fece il suo corso senza alcun ostacolo e trovando la forza di andare sempre avanti come il mare che, infrangendosi contro gli scogli, si rialza, fin quando a bordo del Virginian non arrivò una notizia sconvolgente: il Virginian sarebbe stato smantellato.
Da quel giorno l’intero equipaggio fu impegnato nel trovare altre occupazioni sulla terra ferma, ma Novecento restò impassibile.
Non cambiò nulla nella sua vita quotidiana e non sembrava neanche che la notizia avesse destato scalpore in lui. Il mare sapeva il perché: fin dal principio, Novecento aveva affermato «Sono nato su questa nave, morirò con questa nave».
Era consapevole del fatto che prima o poi sarebbe arrivato il momento.
Non servirono a niente le preghiere degli amici «Scendi, Novecento! Finalmente potrai avere una vera vita sulla terraferma!». Non ci fu verso di far cambiare idea a Novecento, che saltò in aria con il suo caro Virginian, chili e chili di tritolo per distruggere la nave con Novecento al suo interno intento a suonare per l’ultima volta, sulla sua nave e nella sua vita, quel pianoforte.
«Virginian, non ti abbandonerò mai. Addio, oceano, oceano mare».
Fu così che nacque la leggenda del pianista sull’oceano.
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