Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
18ª edizione - (2015)

Quell’ex studentessa di Yale, quella ragazza col soprabito giallo, quella “scrittrice vera”

«Ho deciso che diventerò una scrittrice» disse. «Una scrittrice vera. Nella mia vita»
No, non sono state queste le sue ultime parole. Probabilmente qualcosa di normale «Passami gli occhiali da sole, sono lì, sul cruscotto» oppure «Sbrigati che ci staranno aspettando».
La verità è che non ho idea di quali siano state le sue ultime parole. E no, non sono Miles Halter, non so a memoria tutte le ultime parole dei personaggi che hanno cambiato la nostra storia. Io sono io, che scrivo al computer mentre probabilmente dovrei andare a studiare. Marina era Marina.
Guardo entrambe le due foto che ho: quella a colori sulla copertina e quella sulla quarta. Una che la ritrae per tre quarti, con indosso un cappotto giallo, una gonna a fiori azzurri e degli stivali appena sotto il ginocchio, marroni, di cui s’intravede solo un pezzo. Le mani sono scomparse nelle maniche troppo lunghe della felpa bianca che indossa sotto il soprabito slacciato. Ha i capelli sciolti.
Sulla quarta di copertina invece, la foto è in bianco e nero. Anche qui ha un cappotto, sempre un doppiopetto, questa volta abbottonato quasi completamente. Ha i capelli raccolti e guarda la macchina fotografica, più in alto rispetto a lei (che sia seduta mentre il fotografo è in piedi?).
Un sorriso che non scopre tutti i denti, un sorriso quasi dimezzato.
Più leggo, più voglio smettere di immaginarla che scrive al computer, proprio come sto facendo io ora. Sì voglio smettere d’immaginarla, avete sentito bene. Vorrei invece poter dire a un amico che la menziona «L’ho vista di sfuggita, l’altro giorno, mentre scriveva qualcosa sul portatile, senza staccare gli occhi dal desktop».
Ovvio che il mio vorrei rimarrà lì per sempre, cristallizzato. Immobile, ghiacciato, pietrificato, come lei, Marina. Non penso sarebbe felice di sapere che io (come molte altre persone che non conosceva) ho letto i suoi scritti. Almeno, penso che non sarebbe felice di sapere quanto mi è piaciuto il suo saggio sulla celiachia o i suoi racconti o Nuclear Spring, come non farebbe piacere a me che gli scritti che sono sul mio computer, le bozze dei miei racconti, le poesie, i pezzi scritti alle medie fossero pubblicati come opere postume (che il cielo me ne scampi!).
Quando riapro il libro e leggo di nuovo uno stralcio, è diventata un’abitudine ricollegare il pezzo alla prima volta che l’ho letto. I rumori rassicuranti della mia caffetteria preferita riecheggiano nella mia testa, leggermente ovattati. Rivedo me stessa alzare lo sguardo dalla pagina in metro, giusto in tempo per realizzare che sono arrivata a destinazione e scendere dalla carrozza.
Era il periodo durante il quale ogni tanto prendevo e me ne andavo a zonzo per una Milano silenziosa e intirizzita dal freddo, ancora avvolta nell’abbraccio nebbioso dell’inverno. Girovagavo col naso all’insù, gli occhi incollati a elementi architettonici davanti ai quali passavo tutti i giorni, che non mi ero mai presa la briga di osservare prima di allora, stupendomi di tutte le minuzie possibili, intrappolandole nella memoria del telefonino, scattando foto di cornicioni, riccioli di volute, foglie di capitelli e mascheroni, resi grigi dallo smog meneghino così che sullo sfondo grigio della città risultassero quasi modificate con dei filtri in bianco e nero.
Mi fermavo improvvisamente, notando un dettaglio e ogni volta era la stessa cosa: la ricerca infinita del cellulare nella borsa di stoffa verde, durante la quale, inevitabilmente, la prima cosa che le mie dita sfioravano era il libro di Marina. C’è anche una canzone che mi riporta sulle spiagge di Cape Cod, a Yale o nell’inverno del Michigan, poco prima di Natale ed è Falling di Florence Welch, meglio nota al pubblico come Florence + the Machine.
Mi capitava spesso di ascoltarla mentre leggevo di dubbi sull’amore, spettacoli teatrali e tatuaggi insulsi, ma anche di disperazione nelle profondità dell’oceano, letture ad alta voce e automobili piene di ricordi. È davvero come se fossi stata lì, spettatrice silenziosa di tutto quello che Marina ha scritto.
Come dice Anne Fadiman, professoressa e mentore di Marina all’università è difficile non innalzare su un podio dorato i defunti, soprattutto se erano giovani talentuosi. A quanto pare Marina era determinata fino a quasi risultare irritante, così risoluta da arrivare alla testardaggine, sincera al limite della sfacciataggine. Non aveva paura di impugnare la penna e dire quello che pensava. E ciò è una delle cose che ammiro in lei, qualcosa che traspare anche nei suoi scritti e che assieme alla sua straordinaria abilità di descrivere sensazioni e situazioni, ha fatto sì che potessi sentirmi completamente immersa nella storia, come se fosse tutto lì, davanti ai miei occhi. L’onestà e il coraggio sono due caratteristiche di Marina che le ammiro davvero tanto.
Difficile muoverle una critica. Lo stesso discorso, su questa perfezione cristallizzata da un evento tragico come una morte precoce vale anche per Sofia. Come nel caso di Marina ho poco a disposizione per conoscerla: qualche foto, i suoi scritti e le parole, ancora piene di dolore per la perdita, di chi l’ha conosciuta.
Sebbene non le abbia mai incontrate di persona, sento di poter dire di avere con entrambe qualcosa in comune: l’amore per i libri, la scrittura e soprattutto un sogno: «Ho deciso che diventerò una scrittrice; una scrittrice vera. Nella mia vita».
Ridete voi, ridete pure, prendetevi gioco di me. Ora che ci penso… sono dieci anni che ho questo chiodo fisso in testa.
«Cosa te ne fai adesso della voglia di diventare scrittrice?» chiedono spesso, alcuni beffardi, altri semplicemente curiosi. C’è gente che la definisce addirittura una perdita di tempo (eresia, eresia, eresia!). È successo anche a Marina.
Yale, 10 novembre 2010, Mark Helprin, romanziere, ospite di un master’s tea aveva affermato e ripetuto poi a Marina (l’unica che si era mostrata in netto disaccordo con l’affermazione dell’invitato, esordendo con un «Sta dicendo sul serio?») che «Diventare autori oggi è praticamente impossibile».
Lei, la sera, aveva scritto: «Sentirmi dire da uno scrittore famoso che il settore sta morendo e che probabilmente dovremmo fare altro è stato triste. Forse mi aspettavo qualche incoraggiamento in più a quelli che speravano di fermare la morte della letteratura».
Fu quel pomeriggio lì che dichiarò: «Ho deciso che diventerò una scrittrice; una scrittrice vera. Nella mia vita».
Per me ormai è diventato un mantra.
«Ora concentrati, impegnati nelle cose importanti, a fare la scrittrice ci penserai più tardi» ribatte qualche adulto, quando ripeto quella frase ad alta voce.
No! E questo non significa che intendo trascurare la scuola anzi… ho un disperato bisogno di sapere e di studiare. Ambientare bene un racconto nel Seicento è difficile se non si conoscono le date più importanti del secolo. Per rendere con più precisione la morte di qualcuno per arresto cardiaco, devo sapere che il cuore ha una forma precisa e funziona in una certa maniera. Mi capita di perdermi ore a fare ricerche sulla mitologia induista o sulla Rivoluzione dei Garofani (certo, l’utilità di sapere a memoria la formula di bisezione del coseno o il paradigma di un verbo politematico greco dopo aver passato la maturità rimarrà sempre a me ignota…).
Comunque il mio «No!» riassumeva quello che già Marina aveva scritto prima e meglio di me, quindi ve la citerò di nuovo:

Siamo così giovani. […] Abbiamo un sacco di tempo. A volte abbiamo questa sensazione che si insinua nella nostra coscienza collettiva mentre siamo soli nel nostro letto dopo una festa, o mentre riponiamo i libri perché abbiamo deciso di lasciar perdere e uscire: che in qualche modo sia troppo tardi. Che in qualche modo gli altri siano più avanti di noi. Più compiuti, più specializzati. Più sulla strada giusta per salvare il mondo, per creare o inventare o migliorare. Che ormai sia troppo tardi per iniziare un inizio […] Ciò che dobbiamo tenere a mente è che possiamo fare qualsiasi cosa. Possiamo cambiare idea. Possiamo ricominciare da capo. […] L’idea che sia troppo tardi per fare qualcosa è comica. È ridicola. […] Siamo così giovani. Non possiamo, non dobbiamo perdere questo senso di possibilità perché alla fine è tutto quello che abbiamo.

Queste parole m’incoraggiano a tenere duro, a continuare a scrivere e leggere e, semplicemente, non avere paura semplicemente perché magari non riesco a ottenere un certo risultato al primo colpo.
Sì, direi che alla fine, leggere quello che ha scritto Marina mi fa sentire esattamente Il Contrario della Solitudine.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010