Crescere
Quand’era bambino, d’estate mia madre mi costringeva a estenuanti passeggiate lungo la spiaggia di Francavilla al Mare. Senza una meta precisa camminavamo sulla battigia per non scottarci i piedi.
Lei mi teneva per mano e io, forse per la stanchezza, pensavo che prima o poi la spiaggia sarebbe finita. Nella mia immaginazione quei confini mi apparivano sotto forma di barriere di cemento, o steccati di legno. Una barriera che se avessimo raggiunto, non avremmo potuto spingerci oltre. Il mare da una parte e i monti dalla parte opposta, costituivano i confini di quella striscia di sabbia lunga e stretta. Benché puerile, questa visione del mondo, riflettendoci adesso, era simile alla credenza medievale che la terra fosse piatta.
Diversi anni dopo, appena compiuti diciotto anni, ebbi una crisi di rigetto. I miei genitori d’estate ritornavano tutti gli anni a Francavilla al Mare. Sempre nel solito stabilimento balneare, sotto lo stesso ombrellone e nel medesimo albergo. Una noia mortale. Quindi ogni estate languivo nell’amarezza di rivivere gli stessi giorni tutti i giorni. Solo il mare mi piaceva. Nei miei occhi, tutte le volte che entravo in acqua, si poteva leggere la mia curiosità con cui osservavo la linea piatta dell’orizzonte. Il colore del mare. Quale colore? In realtà tutti i colori del mare si disfacevano appena cercavo di conoscerli.
Diventavano scaglie luccicanti, pezzi di vetro. Avevo la sensazione che potessero ferire tutti, tranne me. Alle mie spalle invece i boschi di pini bruciati dal sole che si contorcevano tra le rocce biancastre, i quali lanciavano sguardi accigliati. I confini intorno a me erano ben delineati. Mi sentivo in trappola.
Ingabbiato in una vacanza che non amavo. Ma io ero troppo ubbidiente e incapace di ribellarmi ai miei genitori. Loro infatti decidevano per me: dove andare in vacanza, quale scuola frequentare, quali amicizie coltivare. Finalmente però sentivo crescere in me una nuova forza, una nuova identità.
Improvvisamente incominciavo a ribellarmi ai miei. All’inizio con piccole cose, poi durante quell’estate dei miei diciotto anni esplosi. Dopo tante umiliazioni e le mille ingiustizie subite, avevo deciso di farla finita. Calmo e lucido come non lo ero mai stato prima, mi allontanai dalla spiaggia e senza troppe spiegazioni presi il primo autobus che mi portava a Pescara. Volevo passare al contrattacco e la cosa migliore da fare era passare la notte fuori di casa. Mentre passavo la notte girovagando per la città, rimuginavo con quanto egoismo i miei genitori mi avevano trattato. Solo l’indomani, dopo averli allarmati inutilmente e dopo l’ennesima litigata, essi capirono che non avevano più a che fare con un ragazzo spaurito. In pochi giorni ci fu un rovesciamento dei nostri rapporti. Mia madre mi guardava con uno sguardo distante e lontano, mentre mio padre si sforzava di mantenere un atteggiamento spontaneo e naturale. Solo quando i nostri occhi si incontravano per caso, leggevo il loro dolore inespresso. La mia adolescenza era finita e loro l’avevano capito. Gli leggevo in faccia a chiare lettere una sola cosa:«Nostro figlio è cresciuto».
Ero diventato adulto. Libero dalla gabbia.
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