Figli della rinascita
Edace si muove sulla strada di ciottoli, attraverso la nodosa pavimentazione di una via cieca: che caleidoscopica visione, la sua!
Il movimento ondoso delle nuvole uggiose cattura i suoi occhi, tazzine di caffè nero, abissali nel loro ostinato tentativo di non esplicitare alcunché.
Eppure… assorbire radiazioni luminose e sensazioni dall’ambiente circostante è ciò che quegli occhi fanno costantemente.
E lui sa che egoisticamente tengono per loro ciò che apprendono.
Rancorosi verso le situazioni che avvengono o, contrariamente restano embrioni del pensiero, avversi al tempo inesorabile che non riescono a classificare, diffidenti delle persone che diffidano di loro e ancor di più di quelle che non diffidano affatto.
Solleva il viso, concedendosi generoso alla pioggia tenue, le cui coltri di nubi preannunciano la caduta. Crolla sul muretto screpolato, la testa tra le mani esangui, percosse da un violento tremore.
Quasi vorrebbe raccontare alle pareti sorde, ai passaggi muti che razza di storia ha vissuto, che razza di storia.
«Figlio della rinascita» mormora sorridendo furbo e indisponente al niente intorno, alla natura matrigna che non ascolta nulla né pretende spiegazioni.
Figli della rinascita, così avevano denominato quella prima generazione degli anni ’80 nata da chi aveva usufruito e poi abbandonato aghi e spade e portava nelle vene sangue infetto. In un età imprecisa di un impreciso momento si era sentito chiamare in quel modo; vulnerabile fragilità di fronte a una rivelazione scandalosa.
Che pargoletto singolare era stato fino a quell’impreciso momento!
Involontari spasmi muscolari lo trafiggono da parte a parte, le gambe hanno ceduto da minuti, è conscio con una lucidità sprezzante e truce di quello che sta succedendo al suo corpo, di quanto gli resta.
Si inumidisce le labbra roride con la modica saliva salvatasi dall’attacco aggressivo della polvere bianca. Ha la schiena madida di rancide gocce secretive, le sue ghiandole sudoripare cercano inutilmente di espellere le molteplici sostanze dall’organismo, mischiando al delicato profumo di muschio e terriccio bagnato un acido puzzo pungente. Aspetta una pioggia infame, che lo sta tradendo.
Ha solo questo ultimo desiderio. Si è allontanato abbastanza, può ricordare senza farsi male.
Dall’ultimo piano dei casermoni la vista delle luci della città, i vizi maniacali, l’erotismo oltre le tende tirate, lo scorrazzare in giro senza rendersi conto che l’oggi si sarebbe trasformato in ieri e poi in domani, destreggiarsi solo in un presente insensato e intanto… bruciare le tappe obbligatorie, mandare al diavolo le statiche tradizioni, lasciare agli angeli i buoni propositi, ai compositori di hits la mercificazione dell’aureola. Ha amato così disperatamente ciò che gli è stato interrato nella mente come esile e innocuo germoglio, permettendogli di fiorire, di reclamare un qualsiasi posto in un universo artificiale, sporco, che punta al verticalismo, all’arrivare in alto, all’ufficio più lussuoso.
Adesso ride di sé, sprovveduto, mai aveva voluto credere in un ideale aristocratico di cultura e civiltà; come avrebbe potuto? Lui veniva dal basso, era stato educato a guardare le persone negli occhi, anche se doveva fregarle, anche se ciò che faceva loro non era un saluto con l’inchino. Nel suo universo piano ogni sbarbatello era re del suo angolo, angolo in cui tutti erano insieme guardia e ladro, occhio e braccio, coloro che guardano le spalle e che le pugnalano senza scrupoli.
E a scuola non te lo insegnano mica, mentre ti riempiono la testa di sillogismi, di analogie, di correnti letterarie, del nome di chi sostiene una tesi e di chi ne sostiene un’altra, mentre lusingano le menti voraci, i pargoletti singolari, mentre sfidano a specchiarsi nella bellezza ingannatrice dell’elaborato componimento, non te lo insegnano mica che tutti quelli, sono trampoli labili, trappole abbellite che rendono l’atterraggio dall’aria aurea ancora più amaro.
«È stato il mio errore, crederci» bisbiglia.
La sua frequenza cardiaca si altera, aumentando notevolmente di secondo in secondo.
«Il mio errore» ripete.
E istantaneo, attraverso la cornea danneggiata, lo scorrere d’immagini sfocate e illogiche, per lui che da sempre è cresciuto per anomalie di linguaggio, di pensieri, di idee arcaiche che nel suo sopravvivere quotidiano non possono essere storia di progresso continuo e organico, ma che vestono le veci di comparse marginali, ombre demistificatrici.
Suo padre, sua madre, trascrizione e traduzione di geni e DNA, ereditarietà di squallidi mestieri, di squallidi riti da branco, assunzione lecita di conoscenze beffarde, assunzione illecita di sostanze proibite.
Da che parte stare? Che libri leggere? Leggere? Che persona essere?
A quale realtà appartenere?
Aveva lui il compito di proteggersi, di non dare retta ai glaciali naturalisti che sostenevano che tutti sono somma del proprio luogo, del proprio ambiente, del proprio preciso momento. Quello e niente altro. Ha fallito. Preferisce andarsene da ignavo, senza rinnegare nessuna parte di sé. Non sa stare al mondo.
Un inetto fatto e finito.
Vede la pioggia, ma non la percepisce più, come tutto il resto, solo un’allucinazione lontana e tenera di quegli occhi caffè nero, i quali non sono più suoi, ma solo relativa coscienza, consapevolezza fulminea che talvolta ciò che uccide non è l’ignoranza.
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