Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
18ª edizione - (2015)

Il silenzio delle parole non scritte

Erano da poco passate le sedici e Amarantha non aveva ancora iniziato a studiare il capitolo di filosofia per il giorno seguente. Sedeva alla scrivania con un foglio bianco e una penna blu che, ogni tanto, arrotolava freneticamente tra i capelli. In due ore, non aveva scritto nulla. Sbadigliò e guardò fuori dalla finestra: la primavera aveva annunciato il suo arrivo con la fioritura dei ciliegi in giardino, che spargevano petali luminosi e delicati sul prato sottostante. Di rado, uno scoiattolo compariva fra gli arbusti, per poi arrampicarsi su per un tronco alto e sparire dalla sua vista.
La primavera, assieme all’autunno, era la sua stagione preferita. Rinascevano i fiori, tornavano il bel tempo e le piacevoli giornate all’aperto e faceva capolino anche il suo buonumore. Allo stesso modo, amava i toni nostalgici e silenziosi dell’autunno e, con esso, lo spegnersi della natura. Il suo sguardo si perse nel cielo, limpido, e si ritrovò a vagare tra i suoi pensieri.
Dopo un’abbondante mezz’ora, si destò e si trovò a fissare il foglio di carta sotto le sue mani.
Erano già trascorsi due mesi senza che scrivesse qualcosa di nuovo. Un fatto molto strano, dal momento che era solita scrivere in qualsiasi momento della giornata, nei luoghi più impensabili: in autobus, al calorifero, mentre mangiava o ascoltava musica, a letto e perfino in classe, durante le spiegazioni. Il prof di greco e latino non le prestava nemmeno più attenzione quando si accorgeva che non ascoltava la lezione. Inizialmente l’aveva richiamata e le aveva sottratto il diario; una volta le aveva messo una nota perché non si era neanche degnata di rispondere ai rimproveri, ma aveva continuato a scarabocchiare imperterrita su una pagina a righe, che naturalmente era finita dritta nel registro. Infine, un giorno l’aveva colta mentre scriveva una poesia sul banco. Probabilmente era rimasto talmente sconvolto da abbandonare ogni speranza e rassegnarsi a quella che sarebbe divenuta una consuetudine. Ogni giorno, la fantasia fervida e brillante di quella ragazza generava dal nulla storie differenti l’una dall’altra, dove prendevano vita personaggi, sorprendentemente reali e descritti nei minimi particolari, così da aver l’impressione che fossero vivi e sempre presenti.
Amarantha si era affezionata ai suoi personaggi. Erano frutto della sua creatività e della sua immaginazione, una parte di lei che amava esibire e di cui era orgogliosa, ma anche molto gelosa. Condivideva i suoi racconti con poche persone; la prima a leggere un suo scritto era stata Chiara, la sua compagna di banco. Hai talento, le aveva detto. Lei si era limitata a sorridere, cercando di zittire quella sottile vocina interiore che le bisbigliava: è vero! Andava fiera della sua abilità di tramutare qualsiasi riflessione, immagine e sentimento in tratti di inchiostro su un foglio di carta, ma non desiderava darlo a vedere, neppure a se stessa.
Scriveva senza un motivo particolare, semplicemente perché le piaceva ed era la cosa che sapeva fare meglio. Bastava una canzone, un profumo, un luogo, un volto particolare, e subito un’intera storia cominciava a delinearsi. I personaggi assumevano una forma, i loro contorni diventavano più nitidi e marcati; la loro voce assumeva un’intonazione particolare. Con stupore, li osservava mentre lentamente prendevano vita sotto i suoi occhi, li vedeva crescere, amare, soffrire e gioire, quasi fossero delle presenze invisibili accanto a lei. Non poteva lasciarli andare, una volta che li aveva creati: erano un pezzo della sua anima, tutto ciò che lei non era e avrebbe voluto essere. Anche quando non aveva nulla da scrivere, come in quel momento, in cuor suo sapeva che i suoi personaggi non l’avrebbero mai abbandonata, ma sarebbero rimasti fermi, in silenzio, accovacciati in un angolino nella sua testa.
«Credo che tu abbia un mondo lì dentro» le aveva detto un ragazzo, la settimana prima.
«Tutti ne hanno uno, o anche di più. Io credo di averne infiniti» aveva risposto con un sorriso.
Si ritrovò a sorridere ancora, mentre giocherellava con la penna. Sbuffò, scocciata, non appena se ne rese conto. Non faceva che pensare a quel ragazzo, Lorenzo. Era uno studente della sua stessa scuola e aveva iniziato a contattarla per messaggio un mesetto prima; si erano conosciuti così, scrivendosi fino a notte fonda e raccontandosi a vicenda i propri interessi.
Era un tipo alquanto strano, senz’ombra di dubbio: all’intervallo se ne stava sempre solo in un angolo a fumare una sigaretta e spesso scompariva, sgusciando nel cortile che si affacciava sul retro della scuola. Portava sempre il cappuccio sollevato e un ciuffo di capelli neri e lisci gli copriva il viso per metà. Non aveva mai avuto modo di udire la sua voce e non sapeva neppure quale classe frequentasse. Nessuno pareva prestargli attenzione, ma lui sembrava esserne sollevato. Per quale motivo un ragazzo misterioso e dall’aria per nulla amichevole si interessava proprio a lei?
Amarantha non riusciva a spiegarselo. Sapeva solo che ne era attratta sempre di più e, non appena le aveva chiesto di uscire, aveva accettato senza pensarci due volte.
«Alle tre e mezza nel parchetto dietro alla scuola, puntuale».
Sei impazzita, continuava a ripetersi mentre si preparava per l’appuntamento. Ti rendi conto che può essere pericoloso?! Non sapeva neppure cosa aspettarsi da quel tipo: come avrebbe dovuto presentarsi, di cosa avrebbero parlato? Ansia e impazienza ben presto avevano lasciato il posto a un inspiegabile terrore. Aveva guardato l’orologio e si era sentita venir meno: mancava solo mezz’ora. Non puoi più tirarti indietro, ma puoi pur sempre tenere un’arma con te, in caso di estrema necessità.
Era la prima volta che si presentava a un appuntamento con uno sconosciuto, con un taglierino ben nascosto nella borsa, e, per di più, era incredibilmente in anticipo. La situazione era surreale: poteva vedere la scena dall’esterno, come se lei stessa fosse divenuta all’improvviso la protagonista di una delle sue storie, ma questa volta era tutto terribilmente vero. Si rendeva conto di assomigliare tanto a una marionetta, intrappolata nella trama intricata di una realtà che aveva costruito con le sue mani.
Perché lo stava facendo? Non avrebbe saputo dare una spiegazione razionale: forse era solo incuriosita da quel ragazzo, o le era partito completamente il cervello, o forse ancora era talmente affezionata ai guai da non riuscire a starne lontana.
Si era seduta sull’altalena ad aspettarlo. I minuti passavano troppo lentamente e cominciava a sudare freddo. Cinque minuti. Era in ritardo. E se si fosse dimenticato? Non voleva neppure pensarci. Senza accorgersi, aveva cominciato ad agitare freneticamente la gamba destra.
Poi, finalmente, lo aveva intravisto: un puntino nero che si ingrandiva man mano che avanzava verso di lei, una figura incappucciata e vestita di nero, con un paio di anfibi pesanti che scandivano i suoi passi. Aveva chinato il capo, fingendo di non essersi accorta della sua presenza, finché se l’era ritrovato davanti.
«Amarantha è il tuo vero nome?». Una voce limpida e profonda, che l’aveva fatta trasalire.
«Sì… Amarantha Lucia».
Si era appollaiato sull’altalena accanto alla sua e lei, finalmente, poteva guardarlo in viso. Gli occhi, verdi, la colpivano più di ogni altra cosa: si posavano sui suoi e vi si sottraevano immediatamente, quasi fossero infastiditi da quello sguardo che cercava di scrutarli nel profondo. Una caratteristica che sarebbe stata perfetta per un personaggio introverso e irrequieto, in continua fuga da se stesso, dagli altri, da un mondo che gli stava troppo stretto. Erano gli occhi aridi di un ragazzo cresciuto troppo in fretta, che ben presto aveva smesso di piangere per sollevarsi e lottare fino allo stremo delle forze; un abisso freddo e profondo dal quale si sentiva dannatamente attratta e da cui — ne era certa — non avrebbe più fatto in tempo a mettersi in salvo.
Parlavano di scuola, film, musica, e Amarantha rispondeva alle sue domande a monosillabi, in modo meccanico e pressoché inconsciamente. Aveva ormai perso il filo del discorso per seguire quello dei suoi pensieri. Ora focalizzava la sua attenzione sulle labbra del ragazzo, morbide e sottili, accentuate dal piercing all’angolo sinistro. Talvolta si piegavano in un sorriso appena percettibile, che gli creava due fossette adorabili sulle guance; vi era un pizzico di malizia che lo rendeva ancora più irresistibile.
«Ehi?».
Si era ripresa con uno scatto ed era arrossita di colpo. «Scusami, stavo pensando».
«A cosa?».
«A tutto e a niente, come al solito».
Lorenzo si era avvicinato. «Parlami di te, adesso».
«Amo scrivere».
Era la prima cosa che le era venuta in mente, la più sincera e, al tempo stesso, la più segreta. Lui l’aveva guardata con un misto fra stupore e curiosità.
«Racconti e storie inventate, soprattutto. Mi basta avere una penna in mano, un quaderno e le parole vengono da sé, senza che vada a cercarle. I personaggi, con le loro vicende, esistono già dentro di me; la mia fantasia mi aiuta solo a stanarle e a ravvivarne i colori, come se fossero tanti tasselli di un mosaico tenuto nascosto sotto la polvere per troppi anni. Sai qual è la mia più grossa paura? Quella di rimanere senza nulla da raccontare o di non riuscire a riportare sulla carta i miei sentimenti. Abbandonare la scrittura, per me, sarebbe come morire».
Lorenzo la scrutava, mordicchiandosi il labbro. «Non aver paura, non succederà».
Lei aveva scosso il capo con veemenza, sospirando. «E invece sì, non ho più nulla da scrivere. Resto ore a fissare una pagina, con mille idee che mi passano per la testa, ma nessuna è abbastanza convincente da indurmi a stendere un brano. È come se mi fossi spenta. Mi sento così inutile e impotente…».
Le aveva afferrato una mano e, per la prima volta, l’aveva fissata negli occhi senza distogliere lo sguardo.
«Amarantha, non farti prendere dallo sconforto, mai. Io credo in te».
“Io credo in te”. Quella frase si era stampata nella sua mente e non voleva saperne di cancellarsi.
Un vago malessere e un’opprimente sensazione di panico la strinsero in una morsa d’acciaio.
Lorenzo la stimava molto più di quanto meritasse, al punto da avere fiducia in lei, seppure conoscesse solo un frammento della sua personalità — l’unico autentico. Non poteva deluderlo.
Sospirò, si prese la testa fra le mani e chiuse gli occhi. Mille voci gridavano dentro di lei, fiumi di parole premevano contro il suo petto per fuoriuscire e liberare emozioni, pensieri e sogni, ma il silenzio attorno a lei era devastante: il silenzio delle parole che non sarebbe mai stata capace di partorire, il grido muto della sua immaginazione, i colori astratti della sua incontenibile fantasia.
Una lacrima le scivolò lungo la guancia e cadde giù, sul foglio immacolato, seguita da un’altra e un’altra ancora. Lasciò cadere la penna e si appoggiò allo schienale della sedia. Ecco dove finiscono tutte le parole non scritte, pensò.
Afferrò il foglio, lo appallottolò con foga e, tracciando una parabola perfetta, lo scagliò dritto nel cestino.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010