Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
18ª edizione - (2015)

Epistula a Poggio Florentino

Guarino da Verona saluta il suo Poggio da Firenze

Poggio, amico mio e dotto studioso, ricevei con gioia le tue lettere sui numerosi e splendidi ritrovamenti da te portati a termine. Mi sento ora di volerti scrivere di un’opera assai singolare e così profonda che il mio cuore fu gettato in un turbine di emozioni non appena la lessi. Quando presi il partito di lasciare Venezia, mi fu proposto di partire per Bisanzio e, infatti, come ben sai ero in Oriente poco tempo fa. Ivi ho avuto modo di dedicarmi allo studio di antichi manoscritti in lingua greca. Ho trovato nuovamente suddetta parlata assai affascinante e a tratti anco più di quella di Cicerone e di Cesare. Non credere, mio esimio amico, che mi sia dilettato con Marco Aurelio, il grande imperatore, piuttosto sono andato alla ricerca di opere che si presentavano poco o del tutto ignote. Mi trovavo, dunque, in un archivio di una curia antica quando, nascosto in mezzo ad altri volumi, scorsi un grande manoscritto che giudicai risalire a due secoli fa o più. Sono certo che il contenuto ti sembrerà straordinario. Un re, sulla cui identità nutro dei dubbi, approda a un’isola dopo una tempesta. Qui è invitato a un banchetto dal signore locale insieme a tutta la corte e a un poeta melanconico che canta di tristi gesta belliche. Il naufrago non nasconde il pianto che, avendo egli stesso vissuto tal evento, non può che sgorgargli copioso. L’autore dell’opera allora ci conduce indietro nel tempo e ci fa rivivere la storia del re naufrago dalla fine della guerra che vien narrata fino a quando egli fa ritorno a casa. La battaglia mi sembra quella che da alcuni nostri padri viene narrata come la guerra di Troia ma sulla quale non possiedo altri documenti. Il re non fu certamente Achille che, da quanto sappiamo, morì durante lo scontro. Allora mi son detto che potrebbe essere l’Ulisse che Dante Alighieri cent’anni fa cantava all’Inferno nella sua Comedìa. Se così fosse, Poggio, spero che converrai con me o mi chiarificherai il tutto, potrebbe essere quel divo poeta che risiede nel Limbo in compagnia di Orazio, Ovidio e Lucano e che fu nomato Omero, l’autore di questo poema. Spero allora di aver rinvenuto e portato su questa terra l’Odissea. Giungo pertanto a spiegarti perché l’opera ritrovata sia un sublime capolavoro di poesia antica, tanto che se Iddio mi ha onorato con l’affidarmi la sua traduzione, io cercherò di far circolare il prima possibile in tutte le scuole della nostra terra e, non avendola vista in Oriente in altre copie, mi domando se anche lì dovrà essere resa comune. Ulisse lo chiamavano i Latini , ma qui i Greci gli danno altro nome, forse Odisseo. Questi è senza dubbio l’uomo antico, eccelso in tutte le abilità tecniche e animali e in lui io ho ritrovato la curiosità rivelatrice di verità che tanto gli antichi filosofi incoraggiavano. Odisseo intraprende il suo viaggio di ritorno a casa, l’isola di Itaca, dopo dieci anni di guerra. Il suo rientro non è tuttavia immediato. A ogni tappa viene rapito dalla curiosità di conoscere il luogo, i popoli e i costumi che lì trova. Nella sete di sapienza, come non posso riconoscerci l’ uomo di tanto ingegno e cultura a cui noi aspiriamo ad avvicinarci? La sua voracità è una forza senza freni che non si ferma davanti a ostacoli di ogni sorta e non risparmia l’uso di armi per rendere pago il suo desiderio. Molte sventure e mai una fortuna seconda lo aspettano ma egli imperterrito continua con la sua audace esplorazione giungendo in mondi sconosciuti prima a tutti quanti. L’autore, che era pagano ancora, scrive che abitò con dee e ninfe e incontrò da vicino quelle misteriose creature che chiaman sirene e che oggidì sappiamo essere frutto della fantasia degli antichi, anche se alcuni fra i più rozzi tuttora ne sono spaventati. Sai quanto il canto di tali creature fosse elogiato per la melodia ma maledetto per il suo effetto? Tutti i marinai che passavano per le scogliere tremende ove quei demoni erano nascosti pregavano per la vita e per le merci giacché bastava semplicemente udirne la voce che ti ammaliavano e a naufragio ti mandavano. Odisseo volle sentire quell’armonia celestiale, così si fece legare stretto all’albero della nave dai suoi marinai e loro li rese sordi con la cera fusa nelle orecchie. Codesti ricevettero l’ordine di non slegarlo anche qualora lui stesso, posseduto dai nefasti canti li avesse pregati di sciogliere le strette carene. Il re dunque assaporò con l’udito la dolce voce delle sirene ma da loro non fu preso. Poggio adorato, non ti appassiona già la storia? Non vorresti chiedermi ora di darti il pesante volume e una stanza chiusa ben bene con un poco di cibo e acqua e candele in quantità per passare giornate intere a volare sulla rapida navicella del nostro re? Ora che son di nuovo qua, nella mia terra, mi vien voglia di riprendere il largo e a vele spiegate, di riscorgere in lontananza la reggia maestosa dell’Imperatore e poi approdato, di abbracciare i molti amici che ivi mi hanno accolto e di assaporare nuovamente i profumi deliziosi della Grande Città. Sai bene, amico diletto, come il mio animo sia piuttosto restio ai viaggi e specialmente quelli per mare sono per me una tortura che la ruota in confronto sarebbe poco o niente. Sai quanto io di mia natura sia un uomo da studio e che non ama essere accolto in pompa magna e son dell’idea che chi è in ogni luogo, non è da nessuna parte. Nella mia vita mi sono sempre guardato bene dall’attirarmi addosso l’attenzione di molti e di dirmi amico di tanti. A me piace la solitudine e insieme a quella, l’amicizia di pochi, veri e fidati. Chi viaggia molto ha molti conoscenti ma nessun vero amico e io mi sono sempre attenuto a tale massima, credendovi fermamente. Ora però, Poggio mio, mi sento diverso. Un qualcosa in me è cambiato. È come se una fiamma che si stava assopendo fosse stata d’improvviso rivivificata da un liquido dello spirito. Mi sono infiammato. Sì, sono stato acceso e ora non voglio più vedere tempo quieto di fronte a me ma vita vera, vissuta viaggiando e studiando ancora. So che poco troverò che m’ispiri come questa grande opera, della quale il titolo mi sembra sia Odissea, ma ricercherò ancora molto e ho il presentimento che tante altre simili siano ancora sepolte. Bisognerà disseppellirle. Ti scrivo ancora che dopo essere stato vicino alle sirene egli incontrò anche un ciclope. Ho letto di creature simili in un manoscritto che un amico mio mi ha portato dalla Bretagna. Lì si parlava di un mostro monocolo dalle dimensioni abnormi, uso a mangiare carne umana. Straordinariamente anche qui la creatura ha stesse sembianze e abitudini. Una volta raggiunta con la nave l’isola del mostro, non sapendo chi vi abitasse, Odisseo volle fermarsi e cercare il pastore che mandava al pascolo un gregge che sostava dinnanzi alla nave. I suoi marinai, uomini mediocri e creduloni, volevano ripartire, ma egli impostosi decise di restare. Beffò poi il mostro e riuscì a fuggire dal carcere in cui era stato rinchiuso. Usando l’arguzia e non solo la forza dei guerrieri, mostra di nuovo la grandezza delle virtù antiche, che alla preparazione fisica accostavano per necessità la forza mentale e la robustezza dello spirito. Si perde nel labirinto degli amori, lasciandosi trafiggere dagli acuti dardi dell’amor profano e trascura i doveri di padre e marito, ma poi s’impone di tornare e si costruisce dunque una zattera di legni poveri e povera in tutto. Parte dunque alla volta del mare più aperto senza equipaggio, contando solo su di sé e sulla sua volontà. O pelago immenso! Anche me portasti per lidi ignoti e quante volte nelle terre là lontane mi hai fatto perdere e rincontrare. Salpavo per il sole e mi fermavo solo alla sera a osservare la luna che rifletteva sul brumoso letto dei miei sonni senza sogni. Non sognavo, mio amato Poggio, non sognavo perché già il giorno era per me luogo di fantasticherie, aspettando il desiderato ritorno mentre ancora ero in partenza. Allora, amico mio, non avevo rinvenuto tutto questo dettato di Dio. Il poeta ci porta poi allo sbarco sull’isola da dove tutto è partito. Da lì Odisseo può far ritorno a Itaca. Di questa terra ci dice che sia pietrosa, ricca solo di capre e sassi e anche di quelli in fin dei conti è povera. È piccola e posta fuori dalle rotte commerciali dei Greci, infatti, è sita a occidente e sono pochi i mercanti che passan di lì. E in fine dunque? Come il vate ci chiude questo mirabile sogno? Tornato a casa, sotto mentite spoglie, si trova circondato da usurpatori assetati di potere. Ahi quante male lingue, quanti avidi falsi amici, quanti usurpatori bugiardi già erano al mondo a quel tempo! Ne ho incontrati tanti di siffatta natura. Finché il denaro e i falsi valori, fallaci illusioni, tutte bestiali, saranno osannate con così profonda dedizione, a questo mondo non ci sarà mai vera giustizia fra gli uomini. Io, tu e altri come noi vediamo la luce chiara dell’aurea sapienza, la Sofia che ci illumina dal tempo che fu, che ci splende sugli occhi nostri ancora semi aperti e per noi brilla lungo la via maestra del futuro. Se maggior peso fosse dato alla sapienza e all’amore per la dottrina antica, allora oggi come ai tempi mitici, i bruti e gli stolti avrebbero poco da ridere. Il re fece strage di quegli usurpatori e giustizia fu ristabilita. La vittoria della virtù sull’infedeltà, del valore sulla viltà e, riunitosi il naturale ceppo della famiglia con il padre, la madre e il figlio, già in età per combattere, il poema si conclude. Ora mi accingo a salutarti Poggio caro e mi sento più che mai volenteroso di tradurre. Il poema è assai complesso e, per piacere e per aiuto, ti prego di venire presto a trovarmi.
Stai bene e continua a scrivermi.
Verona 21 marzo 1422


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010