#JesuisLassana
Se non fosse per lui non sarei qui a raccontarvi la mia storia.
Era un venerdì pomeriggio e tornando da scuola mi ero fermata con mio fratello al supermercato del quartiere in cui abitavamo. Serviva del burro per la torta paradiso, una delle mie specialità che, insieme ad altre delizie, avrebbe arricchito il tavolo del salotto quella sera. Mio fratello compiva diciotto anni quel giorno.
Scrivo queste righe, la confezione di burro è qui davanti ai miei occhi, vicino al portapenne, con su scritta una data che faticherò a dimenticare: 9 gennaio 2015. Son passati tre mesi, solo tre mesi… Tre mesi senza te, Philippe… mi sembrano un’eternità. In questo periodo ho taciuto, mi sono asserragliata nel silenzio, circondandomi di mura invalicabili. Quando morirono mamma e papà, ci promettemmo tra le lacrime di restare insieme per sempre. Ma ho imparato che le promesse sono melensi parole che si dissolvono dopo l’emissione. «Flatus vocis» diceva la mia professoressa di latino del primo anno. Ciò che resta immutato è il silenzio, su questo puoi sempre fare affidamento, perché sai che non ti deluderà e, soprattutto, non ti farà soffrire. Ho taciuto il dolore per tre mesi, legata alle catene di un dramma che mi ha sconvolta. Sono vincolata a quell’istante, non riesco a liberarmene. Le tue cose sono ancora qui in camera, ogni tanto apro gli occhi per vedere le tue eredità inconsapevoli. Chi sa dove saresti arrivato con quella chitarra in mano e quella miriade di spartiti rigorosamente inseriti nel tuo raccoglitore verde… Era il tuo colore preferito, ti definivi il dio della speranza e i tuoi amici ti amavano. La tua bontà era apprezzata da tutti, i detrattori non ti facevano paura, perché tu eri sempre sicuro di compiere la scelta giusta. Eri così fermo nei tuoi ideali che io stessa, seguendo il tuo esempio, stavo imparando a tracciare il mio cammino in modo autonomo. Ora mi sento smarrita, provo timore al pensiero di compiere ogni singolo passo, ho come la sensazione di perdere l’equilibrio ogni volta e di poter precipitare da un momento all’altro nell’abisso che si è aperto davanti ai miei piedi. Nel silenzio si condensano i pensieri, si sciolgono i dubbi e cerco di elaborare un’assenza ingiustificata, ma soprattutto ingiusta. Ogni gesto è insensato davanti al vuoto incolmabile che hai lasciato. Nel dedalo della mia esistenza mi è rimasto solo lui, quello che mi ha salvata e che si sta prendendo cura di me come fossi la figlia che non ha avuto la fortuna di crescere. In questo silenzio sordo, l’ovazione è tutta per lui…
«Basta così?»
«Sì, grazie».
«Sono 1,99 euro e auguri Philippe.»
«Ti ringrazio Sophie.»
Uno sparo. Silenzio. Un altro. Affanno. Terrore. Mi guardo intorno frastornata, mi stringo a Philippe, come una bimba che afferra la giacca del padre davanti a uno sconosciuto che le rivolge parola… Un uomo alto, nero, con un mitra in mano… Cinque spari consecutivi, cinque proiettili che fendono l’aria umida del supermercato. Tutti tacciono. Un neonato scoppia a piangere, la madre ansante gli copre la bocca con delicatezza, sussurra una melodia per sopire il suo spavento, indietreggia tremante. Vince chi si aggiudica la corsia più imboscata. La cassiera è fuggita via, la moneta da due euro ancora rotea sul bancone. L’uomo con l’arma scruta torvo la scena, rompe il silenzio: «Allah akbar!».
Un altro sparo. Il neonato continua a piangere. Noi due siamo pietrificati, non muoviamo un dito, nella speranza di non essere scorti.
«Michelle, indietreggiamo.»
«Philippe, se ci vede ci ammazza.»
«Michelle, taci e dammi retta. Indietreggiamo.»
Lo guardo negli occhi, il suo sguardo è fisso sull’attentatore, fermo e pungente come uno strale. Lo stringo tanto forte da artigliargli quasi la carne ma lui sembra non avvedersene. Sono trafelata, dopo un paio di passi mi sembra di aver macinato chilometri; la paura annichilisce il tempo, rallenta le lancette, impostandole al ritmo di un battito cardiaco fiacco. Quando improvvisamente vedi davanti a te materializzarsi il confine tra vita e morte, è difficile schiacciare il freno in tempo e salvarsi… e, se ce la fai, ancora più complicato è sopravvivere al limbo infernale che ti avvolge in quegli istanti.
Un alone di luce avida di sogni mi abbacina e mi priva di ogni forza. Chiudo gli occhi, li riapro, una sequenza di immagini si dispiega brumosa, vorrei fermarla ma non ne ho la forza. Il volto di Philippe si fa diafano, le sue labbra si muovono ma non riesco a sentirlo, però i suoi occhi parlano. Le sue pupille mi fissano, una lacrima gli solca il viso, la bocca si allarga in una disperazione afona. Improvvisamente un fischio mi lacera i timpani, vedo la mano destra di Philippe agitarsi nel vuoto nell’inutile tentativo di afferrarmi; mi sento cedere in un deliquio eterno, lentamente. Uno sparo. Un altro. Un altro ancora. Un brivido mi attraversa la schiena, due mani grandi e sudice mi ghermiscono da dietro e mi sollevano. Il volto di Philippe si tinge di rosso, vittima di un pennello assetato di sangue. Allungo il braccio sinistro, mi dimeno per liberarmi dalle mani che mi hanno afferrata, mi sporgo come un bambino che vuole tornare sul ventre del padre. Come i manifestanti sediziosi tentano di sfuggire alle autorità, così io cerco di divincolarmi per correre da Philippe, il mio guerriero indefesso che è ormai accasciato a terra, in una pudica compostezza rasserenata. Il sangue gli sgorga a fiotti dal collo, la confezione di burro è lì accanto a lui, candida. Il mio volto è caldo e intriso di lacrime, singhiozzo, uggiolo come un cane abbandonato dal padrone. Piangere stanca e debilita, i nervi cedono, uno dopo l’altro, a effetto domino, fino a che un sipario cala con solennità perentoria sul palco degli strazi. Scende il silenzio, le palpebre si abbassano, mi faccio cullare dalle braccia confortanti di Morfeo… La quiete dopo la tempesta.
«È proprio quando si crede che sia tutto finito, che tutto comincia». (D.Pennac)
Una sorta di corrente mi attraversò il corpo, un tocco leggero sulla spalla, raccolsi le ginocchia al petto, mi coprii il capo con le braccia.
«Réveille-toi.» mi riecheggiava affettuosamente nelle orecchie.
Con lo sguardo fisso al pavimento chiesi: «T’es qui?».
«Lassana.»
Ero rattrappita, ma cercai di aprirmi tra gli avambracci uno spiraglio sufficiente a farmi vedere il volto della persona che mi aveva svegliata. Era nero.
«Mi vuoi uccidere, non è vero?»
«No.»
«E cosa ci facevi con un mitra in mano?»
Mi sollevò per le ascelle e mi pose sulle sue gambe, per poi abbracciarmi con tenerezza.
«Cosa stai facendo? Lasciami stare!» gli dissi con tono concitato, cercando di discostarmi dal suo petto, stringendo i denti per il dolore delle mie membra intorpidite.
Mi accarezzava i capelli e mi sussurrava di stare tranquilla. Ero troppo stanca per oppormi ulteriormente, chiusi gli occhi. Dopo un paio di ore li riaprii e mi accorsi che c’erano altre persone nella stanza. Nello scompiglio mi erano caduti gli occhiali e non riuscivo a riconoscerne i volti pallidi.
«Tu non sei quello di prima, vero?» gli chiesi, evitando il suo sguardo, tremante.
«No. Come ti chiami?»
Silenzio. Dopo qualche istante di indugio, risposi: «Michelle».
«Che bel nome. Anche mia figlia si chiamava così.»
Era giovane nei lineamenti, ma maturo nell’espressione di chi ha dovuto imparare a vivere troppo presto.
«Hai una figlia?»
«Avevo. È morta due anni fa, all’età di nove mesi.»
Avevo l’orecchio sinistro appoggiato al suo petto e sobbalzai quando sentii il suo battito cardiaco accelerare all’improvviso. Sentii un sospiro caldo accarezzarmi il collo. Lo fissai: negli occhi un languore doloroso, sollevai la mano e gli asciugai le lacrime dalle guance glabre.
«Sei tu che mi hai salvato, vero?»
Lassana annuì, stringendomi la mano e baciandomi la fronte. Sobbalzai all’improvviso, come al risveglio da un cattivo sogno: «Dov’è mio fratello?».
Lassana chinò lo sguardo verso i miei occhi imploranti.
«Dov’è mio fratello?» ripetei in lacrime, scontrosa. Mi pentii del tono utilizzato e gli chiesi subito scusa.
Lassana mi rispose. «Mia figlia Michelle è stata uccisa da un folle ubriaco…– fissando su di me uno sguardo triste – Tuo fratello è stato ucciso da un folle fanatico».
Un turbine di emozioni e sentimenti mi travolse, chiusi gli occhi… mi sembrò di ritrovarmi persa in una mischia anonima, nel tentativo di aprirmi un varco, alla ricerca disperata della via d’uscita, qualunque essa fosse, ma a ogni passo mi sembrava di scivolare sulla superficie lubrica con i miei piedi nudi e vulnerabili, come se fossi appena stata strappata dal rifugio del mio letto tiepido.
Lassana mi versò dell’acqua in bocca e mi bagnò la fronte ardente.
Con gli occhi socchiusi sussurrai fiocamente: «Grazie».
Una signora con gli occhi a mandorla, con una piccola bambina in braccio, mi si avvicinò.
«Stai meglio tesoro?»
Annuii e accennai un sorriso.
«Che bella bimba che hai» dissi a quella donna che mi ringraziò e cominciò ad accarezzarmi i capelli.
«Ragazza mia, dobbiamo essere forti, quel mostro è ancora là fuori nascosto.»
Iniziai di colpo a singhiozzare disperata, agitando le braccia in aria e scalciando.
Lassana mi immobilizzò con la forza, coprendomi delicatamente la bocca e sussurrandomi parole di conforto. «Non sei da sola, ci siamo noi».
«È uno di quelli di mercoledì?» gli chiesi balbettando. Continuavo a tremare.
«No, i fratelli Kouachi sono ancora latitanti, non si hanno notizie, la polizia ha individuato la zona in cui si trovano, ma non sono ancora stati catturati. Questo è un loro complice, ieri mattina ha ucciso una poliziotta e ferito un altro agente. La polizia dovrebbe essere già arrivata, sta pianificando un blitz, mia moglie è fuori con mia madre e mi sta aggiornando sugli avvenimenti via sms. Dobbiamo solo sperare che non gli venga la malsana idea di entrare qui dentro».
«Ma dove ci troviamo?» gli chiesi.
«Siamo in una cella frigorifera.»
«Ma non fa freddo.»
«Ho abbassato l’interruttore prima di farvi entrare.»
La donna asiatica, stringendo le mani di Lassana, intervenne: «Non saprò mai come ringraziarti, Lassana. Hai salvato la mia vita e quella della mia bambina, te ne saremo grate per tutta la vita».
«Che Allah ti benedica signora, sono certo che ciascuno di voi avrebbe agito allo stesso modo. Tuttavia non è ancora tempo di ringraziamenti, adesso dobbiamo pregare che tutto vada come deve andare. Quel pazzo potrebbe irrompere da un momento all’altro e farci tutti fuori».
«Lassana, che origini hai?» gli domandai.
«Sono del Mali, perché?»
«Sei musulmano?»
«Sì, sono musulmano… ma di quelli veri.»
A quel punto si intromise un anziano atticciato e camuso con la camicia sbottonata madida di sudore, seduto vicino alla porta.
«Perché cos’è quello scentrato che ha minacciato le nostre vite mezz’ora fa? Un musulmano che insieme alla sua compagine pazzoide ci eliminerà tutti, uno ad uno, in nome del loro Dio. Sveglia signori, ci stiamo crescendo il nemico in casa!»
Tutti tacquero.
Un ragazzino si alzò. «Il mio migliore amico è musulmano. Si chiama Hicham e siamo in classe insieme. I nostri genitori sono amici, non è vero mamma?» chiese conferma, rivolgendosi alla madre che era seduta di fronte a me.
La madre sorridendo annuì, rispondendo: «È vero Charles, è proprio così».
Il ragazzino continuò: «L’estate scorsa siamo andati nel suo Paese, il Marocco: è stato il viaggio più bello della mia vita! Il Marocco è una figata, cinque volte al giorno un signore su una torre canta delle frasi nella loro lingua che è l’arabo e tutti si riuniscono nelle moschee a pregare. È bello vederli tutti insieme… una mattina sono andato a pregare con Hicham e suo padre, mi sono divertito un sacco, dei loro amici mi hanno anche offerto il pranzo. Secondo me vi sbagliate signore, se conosceste Hicham e la sua famiglia vi ricredereste».
Charles saltellando tornò dalla madre che lo abbracciò e lo baciò sulla fronte, con uno sguardo tenero e orgoglioso ma allo stesso tempo preoccupato.
Lassana sorrideva con gli occhi persi nel vuoto.
«A cosa pensi, Lassana?» gli chiesi.
«Penso a mia figlia, a come sarebbe stato crescerla e a che tipo di persona sarebbe diventata… Penso a che padre sarei stato, a quali esperienze avrei potuto condividere con lei… La vita a volte sembra ingiusta, tanto che ti arrendi di fronte ai suoi meccanismi imprevedibili. Avrei voluto poterla ancora abbracciare, come sto facendo ora con te… Avrei voluto chiamarla ancora Michelle, così come il destino mi permette di fare ora con una figlia che però non è la mia».
Gli sfiorai l’occhio sinistro con due dita, raccogliendo le lacrime che aveva versato.
«Sono sicura che Michelle sarebbe orgogliosa di suo padre in questo momento. Anche Philippe lo sarebbe, perché hai salvato sua sorella… E anche io lo sono: grazie Lassana.» conclusi, alzandomi affaticata… Gli presi la mano e gliela sollevai in segno di vittoria. Una signora emaciata e pallida in volto alzò il suo bastone e con quanta voce aveva in gola ringraziò Lassana e così tutte le altre persone che avevano condiviso con me il terrore della morte.
Charles espresse la sua gratitudine abbracciando calorosamente il giovane che, commosso, mi mormorò: «Merci». Gli strizzai un occhio, dopodiché lo strinsi in lacrime, bagnando la sua frusta divisa da commesso che da quel giorno sarebbe diventata indegna di vestire un uomo così speciale.
Il signore anziano con la camicia sbottonata nicchiò qualche secondo, poi ci gettò le braccia al collo e pentito si scusò per le sue parole, ringraziando Lassana di tutto cuore. Mi sentivo come un pulcino che si addormenta sotto l’ala della chioccia. Ero al sicuro, ne ero consapevole, in quel momento solo Lassana poteva offrirmi riparo e solo con lui volevo stare. Come un bruco inesperto della vita, racchiuso nel tenue bozzolo ancora immaturo per schiudersi; così ero io tra le braccia di quell’uomo sconosciuto di cui credevo ormai di conoscere tutto.
«Ci sono io con te, Michelle.»
Decine di spari, urla, porte sbattute, passi frastornanti e disordinati.
Tre agenti abbattono la porta del nostro locale a colpi di manganello.
«Allez, maintenant tout va bien, vous pouvez sortir!»
Barcollo, tutto si muove attorno a me, vedo luci gialle e rosse alternarsi come le pedine di una scacchiera. La mia mente è ottenebrata, così come il cielo che si sta incupendo all’imbrunire. Piove.
Va tutto bene, Michelle. Svegliati, l’incubo è finito.
Ecco la confezione di burro, la raccolgo. Candida come Philippe l’aveva lasciata. Candida come la torta paradiso che tanto gli piaceva. “Buon diciottesimo compleanno fratellone, ti voglio bene”.
Aria. Ambulanze, fotografi, giornalisti, curiosi, parenti che fanno gazzarra. E poi ci sono io, mano nella mano con lui, il mio salvatore.
Il mio eroe è musulmano e in data 20 gennaio 2015 gli è stata conferita dal Ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve la cittadinanza francese per «il suo coraggio e altruismo», e perché incarna «i valori della Repubblica».
Se non fosse per lui non sarei qui a raccontarvi la mia storia.
A te, fratello di sangue, Philippe Braham.
A voi, miei fratelli ebrei: Yoav Hattab, Yohan Cohen, François-Michel Saada.
Shalom aleikhem.
Parigi, 9/04/2015
Ispirato a una storia vera.
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