Un viaggio attraverso la materia
How odd I can have all this inside me and to you it’s just words.
[Come è strano che io possa avere tutto questo dentro a me e, per voi, si tratta solo di parole.]
David Foster Wallace, The Pale King
Mi capita. Spesso mi fermo, esco dalla dimensione del libro e, liberandole, le mie capacità di attenzione sono nuovamente in grado di disperdersi e aggregarsi come atomi nell’universo delle sensazioni; la realtà e il 1mio stesso organismo che si spiegano e si dipanano attraversati dalla mia percezione: sono un intreccio di gangli nervosi rivestito di muscoli fibrosi, un insaccato di carne rossa avvolta da pelle. Una poltrona è sotto di me – ne sento la fitta trama regolare sotto ai dermatoglifi dei polpastrelli – e io sono seduto e so di essere seduto; so da dove viene la luce e che è cambiata nell’intensità e nell’angolazione con cui colpisce la pagina e invade la stanza determinandone il colore, sento l’odore della cena da qualche parte in casa, il suo profumo che si propaga svaporando dai piatti. Nuovamente sono e possiedo la consapevolezza di esserlo, questo complesso stratificato di tessuti immerso in un ambiente.
È accaduto che mi sono smarrito leggendo, mi sono disciolto nella sequela cadenzata delle vicende o nell’ampio periodo di un’esposizione che si snoda e serpeggia rigo dopo rigo; lo scorrere dei singoli caratteri che, accelerando, lettera dopo lettera, si trasformano nello snocciolare di parole intere e nel flusso costante e regolare di periodi. I tuoi occhi oscillano percorrendo la pagina da sinistra a destra, viceversa, e ancora da sinistra a destra e un’altra volta nella stessa direzione a caccia delle coordinate di un soggetto che hai perso. Il tutto è ipnotico. Un’esperienza che si svolge su un altro piano spaziale, fuori dal tempo, che ti passa addosso e ti sferza senza scalfirti o eroderti, il tuo corpo pietrificato un impassibile involucro per la tua mente altrove. Sei dimentico di ogni cosa, completamente assorto e assorbito, parte della carta con la carta.
Ora sono uscito dalla piana dimensione del libro e con sguardo d’insieme fisso l’affastellarsi dei caratteri sulla pagina senza più identificarli come parole, privandoli del loro complessivo significato, e sono rimasto a guardare senza leggere o fare nulla, come stordito. Sono riuscito a cogliere la grandezza di un passo e dentro di me si è accesa un’assoluta ammirazione per l’autore, un sentimento che freme e si dilata sotto la sua stessa pressione interna perché, quando mi rendo conto di quanto sento, la stima per qualcuno che possa farmi provare questo grazie alle sole parole, non può fare altro che crescere.
Sul foglio stampato si spalanca allora una domanda infinitamente profonda che trascende e inghiotte il testo, le fauci di una voragine scura il cui echeggiare gutturale prelude un abisso senza fondo di soluzioni mai complete e inesatte, eternamente insoddisfacenti: “Che cosa è stato in quel nugolo di caratteri? Cosa esattamente mi ha colpito e smosso col suo fragoroso impatto?”.
Fa paura allora, non sapersi rispondere; senti di avere qualcosa di magnifico e immenso di fronte, senza riuscire a inquadrarlo, definirlo e comunicarlo. Descriverlo, verbalizzarlo. Certo non si tratta dell’intreccio narrativo e non è la semplice struttura del fraseggio o il solo registro a fornire il tono e il ritmo, non nelle sfumature che qui si presentano perfette; non basta. Quindi decidi di compiere il salto nel baratro, altezza vertiginosa nello spessore micrometrico di un foglio.
Puoi indagare il passo alla ricerca di accorgimenti stilistici e mai finire, una serie inesauribile di inezie infinitamente sottili dentro alle quali ve ne sono altre, nuove e sempre nascoste, l’indagine che svela una matrioska inesauribile, l’incessante involuzione del periodo che puoi anche decomporre ai suoi più semplici fattori senza mai riuscire a individuare interamente l’esponenziale numero di relazioni tra questi, le quali a loro volta determinano l’equilibrio classico o barocco o ermetico che puoi riconoscere e lontanamente contemplare, ma del quale non sei in grado di formalizzare le regole, tracciare le linee guida che ti permetteranno di raggiungere la bellezza.
Quale bellezza?
Alcuni vi diranno che è perché i libri hanno potere, che possono molto, che devi pensare, per esempio, alla Bibbia, i libri hanno il potere di trasformare la storia, pensaci, ci sono opere che hanno condizionato tutta la storia del pensiero, pensaci, eh.
Ma il fascino e la bellezza del libro sono slegati dal potere, assolutamente. I libri non hanno più, se mai l’hanno avuta, la capacità di risonanza dei nuovi mass media, di percuotere le masse bronzee e far propagare il profondo eco di un’idea attraverso fatti e rivolte, forse successe con i libelli scandalistici della rivoluzione francese; Ma solitamente è il potere, una realtà che non giace racchiusa tra frontespizio e quarta di copertina, che si fa invece strada nelle nostre vite con la ferocia delle nocche, a influenzare quello che si scrive.
Quello che stiamo cercando qui è altro. È ciò che mi viene da rispondere quando, se invito qualcuno a leggere qualcosa, lui chiede: «Perché, cosa c’è di speciale?».
È il vero significato dello stare a lungo seduti in silenzio, nell’immobilità; è la passione assurda che mi spinge a parlare per ore del mio autore preferito quando ne leggo un passo – le facce dei miei coetanei che impietriscono e poi i muscoli e le espressioni facciali che si disfano nella noia – è la vibrazione che si propaga sin dalle cavità profonde del mio essere fino alla superficie come fossi una scultura che riprende vita dalle viscere; ciò che mi anima. Un qualcosa che non ha nulla ha che fare con il potere.
Non ha nulla nemmeno a che fare con il lascito o la testimonianza di coloro che non ci sono più, e dei grandi, che morti, si conservano nelle loro opere: il libro non è una bara, non è un feretro, un catafalco, una lapide o un mausoleo per l’autore che lo scrive; è vero che l’autore lavora sul libro, lo concepisce, lo progetta, lo crea, lo forgia dall’indeterminata coltre della lingua, gli da forma e vita e lo produce; ma se ne separa e questo è inevitabile.
Quante volte, nella mia emotività di adolescente, ho portato dentro di me garbugli indistricabili di opinioni e sentimenti inespressi? E nel leggere un passo: ecco la mia realtà, la mia stessa realtà, quella che mi stava dentro e che cercavo di elaborare attaccandola da mille angolazioni sdraiato sul mio letto, eccola cristallizzata, sublimata. Eccola.
E allora desiderereste averla accanto voi, la paterna presenza dell’artefice del testo che vi spieghi
esattamente cosa e come e perché; ti dice cosa intendeva davvero dire, ti dice come ci è arrivato, quale percorso lo ha portato a comprendere questo piccolo ingranaggio della più complicata macchina della vita, e poi ti dice anche perché ha scelto di scriverlo così. Guarda , ti dice, mentre con il suo indice evidenzia sulla pagina una parola, e spiega.
La verità è che non c’è nessuno. Perché l’autore macchia il proprio libro di sudore, lacrime e sangue e lo fa della propria sostanza, ma poi sparisce dietro all’opera, le garantisce vita propria e l’abbandona a chi la leggerà, senza contaminarla ulteriormente di sé; l’autore è un fantasma, ma il libro non è in alcun modo il suo testamento.
What really knocks me out is a book that, when you are all done reading it, you wish the autor that wrote it was a terrific friend of yours and you could call him up on the phone whenever you felt like.
[Quello che mi fa davvero impazzire è un libro che, quando lo hai proprio finito di leggere, desidereresti che l’autore che lo ha scritto fosse uno dei tuoi migliori amici e che potresti chiamarlo al telefono ogni volta che ti va.]
J.D. Salinger, The Catcher in the Rye [Il giovane Holden]
E allora cosa? Per comprenderlo devi metterti dall’altra parte. Non c’è altro modo. Non ti puoi solo gettare nel crepaccio e sperare ti trovare un appiglio. La voragine la devi scavare tu.
Ha a che fare con il rappresentare la vita, nel suo nucleo magmatico e pulsante. Più precisamente: si tratta dell’impresa titanica di aggiogare la natura, costringere la massa impetuosa delle sensazioni a confluire, e ordinarle; innalzare dighe secondo le architetture della sintassi e la solidità del materiale morfologico, la realtà polifonica e multicolore che si scontra con gli argini costituiti parola dopo parola, ogni vocabolo essenziale e portante alla struttura complessiva anche quando questa può apparire esagerata, enfatica e pesante. Il tutto ha il solo fine di trasmettere l’universo, con le sue tendenze centrifughe ed esplosive, in linguaggio lineare; concluderlo, delimitarlo e renderlo in una nuova forma, un codice del tutto differente da quello con cui è espressa la realtà.
È da questa operazione di conversione che in parte deriva la fascinazione del libro, che non si serve di nulla di materiale come il colore, la luce o la vista, eppure può darti ogni cosa; ma per farlo occorre un lavoro colossale e certosino, senza regola esatta. Le infinite soluzioni espressive che ti costringono a una scelta, decidere il cosa e il come, lo stesso rispettare le norme semantiche parte della decisione, il non detto che conta ben più di quanto è esplicito; la possibilità di fare ogni cosa, le opzioni sono una così enorme massa ramificata che per potere portare a termine un qualunque frammento devi davvero essere convinto della validità di quello che scrivi. Questa, la fede assoluta nei propri contenuti, è un’altra parte.
Questa è la scrittura: elevazione oltre i limiti fisici della comunicazione. Il linguaggio è la forma di comunicazione con la quale aspirate a trasferire alcuni contenuti dal complesso contenitore che è la vostra persona al complesso contenitore che è la persona che avete di fronte; c’è qualcosa di tragico in tutto questo però, ogni volta che schiudete le labbra e guardando i vostri affetti negli occhi pregate che tutto il peso che vi portate dentro arrivi dall’altra parte senza malintesi, c’è qualcosa di tragico ogni volta e nemmeno lo sapete.
Piramo e Tisbe che segregati dentro a loro stessi, nella loro solitudine, provano a parlarsi attraverso una spaccatura nel muro; ugualmente ogni uomo, donna e bambino che parli con un altro. Senza neanche vederlo il muro, senza neanche accorgersi che oltre a quanto sentiamo, oltre al piccolo frammento di alterità che ci è concesso spiare, oltre c’è ben di più.
Questa è l’arte allora: non avere paura di conoscere la barriera che ci separa, non avere paura di toccarne le ruvide superfici, di saggiare, battendo con la mano, quanto sottile e fragile è questa pochezza invalicabile; scorrere il proprio indice su ogni centimetro, sotto la propria pelle percepire il perimetro di questa frontiera e conoscerne l’organizzazione. E presa coscienza della realtà e che tu potrai limare e perfezionare all’infinito, ma il cammello non passerà mai intero per la cruna dell’ago, allora ti tocca usare il metalinguaggio: superare i limiti usando le regole degli stessi.
Come è possibile? Devi pregare che l’altro riesca a intuirlo: Non è tutto qui. Non sono solo lettere queste, non devi vedere solo le lettere. Devi vedere attraverso di esse, devi riuscire a scorgere che dall’altra parte esiste una dimensione che vive e pensa e si agita.
E infine questo significa leggere: finalmente penetrare nel mondo che esiste oltre la nostra pelle, verso l’altro che ci è altrimenti sconosciuto, nelle sue ossa; ottenere perlomeno uno scorcio di quello che sono le certezze che lo sostengono, le impalcature di ideali che lo tengono in vita e gli permettono di muoversi.
Perdersi dentro a una verità che non è la tua. Poterne cogliere l’intimo; quello che le ripetitive interrogazioni a scuola, le lunghe ed estenuanti telefonate di lavoro, lo sproloquio burocratico alle poste, quello che queste realtà non fanno emergere. Perché il libro con i suoi minimi essenziali strumenti ti costringe a capire che il mondo non può essere in novantacinque caratteri stampabili.
E l’altro ti costringe a cercarlo.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni