Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
18ª edizione - (2015)

L’arte del cavarsela

Vedeva l’Arte in tutto.
Nella prima colazione, nella sigaretta che la seguiva, nelle canzoni di Lou Reed suonate attorno al falò della mezzanotte, e anche nelle orme che inevitabilmente si formavano quando attraversava la sua amata East Coast.
E io, l’Arte la vedevo in lei.
In tutte le sue forme. A partire dai quei suoi disordinati e molto spesso sporchi capelli color corvino, per poi finire nei suoi occhi. Aveva due smeraldi al posto degli occhi. E io ero goffamente imbarazzato anche solo al pensiero di poter essere entrato anche solo una volta nel suo campo visivo. E come molti degli scrittori che conoscevo, anche io ero succube di quello che una giovane musa, potesse ispirarmi: una malsana voglia di vivere e rivivere la vita.
Lei era estremamente cocciuta, a volte acida, e anche un po’ stronza. Alla mattina facevo fatica a parlarci, se ne stava sempre in riva al mare, guardando l’orizzonte come se in qualche modo lei sentisse di appartenergli.
Nonostante vivessimo assieme, ognuno si era abituato a prendersi i propri spazi. Sapete, lei era giovane e aveva bisogno che qualcuno le garantisse la privacy di fumarsi uno spinello alla finestra, senza che un povero uomo di mezza età la intralciasse.
Io allora avevo 49 anni, e una moglie incinta che aveva appena chiesto il divorzio. Una casa nel West Virginia che sicuramente sarebbe spettata a lei, e un amore incondizionato per la scrittura che non riuscivo più a contenere. Sia chiaro, io non ho mai tradito mia moglie, il motivo per cui mi ha lasciato, è perché si sentiva sola, e per qualche assurda ragione lo era. Ma lo ero anch’io. Solo, più solo di lei.
La decisione di prendermi del tempo a Coney Island, sulla East, l’ho presa pochi mesi dopo la rottura. Non volevo scappare dai problemi, come molte delle sue amiche le avevano suggerito, inculcandole nel cervello ipotesi malate, ma bensì perché dovevo terminare il romanzo che stavo scrivendo. Purtroppo in quei mesi mi ero preso il virus più comune e temuto da tutti gli scrittori presenti su questo fottutissimo pianeta, avevo il blocco dello scrittore.
Ricordo come fosse ieri, la prima volta che scesi dall’aereo e mi feci all’incirca un’ora e trentacinque minuti di viaggio in bus. Appena arrivato toccai con mano un’anonima panchina che dava sull’oceano, era di legno, e sedendomi mi ero anche tagliato a causa di quelle fastidiosissime schegge non levigate abbastanza. Avevo alzato gli occhi al cielo, e poi ero ritornato a fissare un punto della panchina, c’era una scritta in inglese, un po’ dialettale, ci misi un quarto d’ora per capire quello che c’era scritto, e alla fine arrivò lei e ci si sedette sopra incrociando le gambe, e poggiando i suoi grandissimi anfibi sulla ringhiera che ci divideva dalla spiaggia.
Fu la prima e l’unica volta che la vidi sotto quella luce. Una grande maleducata che puzzava di alcool, e che di Barbra Streisand non aveva neanche una virgola. Masticava una gomma alla menta che poi aveva sputato davanti a sé. Strabuzzò gli occhi nel vedermi completamente indifferente alla scena e mi disse: «C’è scritto: tutto quello che voglio provare nella mia vita, è oltre a quell’orizzonte laggiù».
Me ne innamorai una sera di luglio. Dopo che feci il bagno e mi andai a sdraiare sulla sabbia bollente con in mano un Cosmopolitan e uno dei libri di Murakami, (scusate se non ricordo quale).
Lei mi chiamò con il mio nome di battesimo che solo a lei avevo voluto svelare, e poi mi raggiunse.
Indossava un minidress nero, degli anfibi e una giacca di jeans oversize. Non era proprio magra, ma andava benissimo così, perché se fosse stata magra non sarebbe stata lei. E mi doleva ammetterlo, ma le sue forme mi piacevano, e mi sentii male al solo pensiero di quello che stavo pensando, non eravamo anagraficamente compatibili.
«Sai» mi disse «Adam, o come diamine ti chiami, non sei proprio vuoto come pensavo».
Mi guardò dritto negli occhi e non distolse lo sguardo, s’inumidì le labbra e iniziò a mordersele tanto fino a farle sanguinare.
Era giovane, ma inconsciamente promiscua e lolita. E aveva una sfilza di uomini, mi correggo, ragazzini, che le giravano intorno. Ma nessuno di loro la soddisfaceva, a tal punto che era costantemente infelice, e a me dispiaceva moltissimo.
Quando decidemmo di soggiornare insieme, i primi giorni furono i più duri. Lei era molto sfacciata e libertina nei miei confronti, e in casa girava con solo una maglietta e un paio di slip addosso. Tentai di farglielo capire in tutti i modi possibili che era meglio evitare un certo tipo di abbigliamento quando convivevi con un uomo, e non un uomo omosessuale, ma avevo paura di risultare un porco maniaco ai suoi occhi, così facevo finta di niente.
Lennon non studiava, non lavorava e non so che diamine facesse per avere quei pochi soldi di cui aveva bisogno. La casa in cui alloggiavamo era del suo bisnonno, e ci viveva da sola. Ma questo non giustificava tutte le spese che doveva affrontare, so che prendeva dei sussidi dallo stato, ma non sono sicuro che li spendesse per pagare le tasse.
Tornava a casa alla mattina presto, perché per lei la notte era più importante del giorno, e ancora strafatta di acidi e cannabis, si rinchiudeva nella veranda a dipingere pensieri astratti. Ecco, una cosa che sapeva fare c’era, aveva un innegabile talento nel dipingere paesaggi e persone morte. Lo so che è una visione un po’ macabra di una diciassettenne appena nata, ma pian piano riuscii ad abituarmi anche ai suoi ritmi e alle sue torture interiori.
Una notte tornò a casa prima del previsto, io stavo guardando la finale di stagione degli Yankees con una birra in mano ed ero leggermente brillo. Lei tentennò nel venirmi incontro, ma poi all’ultimo cambiò direzione e mi si buttò sopra; dovetti resistere con tutte le forze che avevo in corpo per non ricambiare il bacio. Ma sapevo che era sbagliato, e avevo paura dell’imbarazzo che un gesto così intimo avrebbe potuto creare. La caricai sulle spalle e la portai a letto, la spogliai, e notai spiacevolmente che era svenuta, così le controllai il battito, ma era tutto a posto, grazie a Dio.
Il giorno del mio cinquantesimo compleanno, festeggiai con quarantotto candeline. Mi sentivo più giovane, e non vedevo motivo di evidenziare gli anni che si ostinavano ad avanzare. Di fianco a lei mi sentivo di rivivere ancora i lontani anni ’70 che ogni tanto mi mancavano, e lei di fianco a me si sentiva più intelligente e meno bambina. Mi accorsi dopo che eravamo entrambi irresponsabili e liberi, ma soprattutto liberi. Non ci importava del giudizio della gente, e anche se si andava dicendo che ero un vecchio zio arrivato dalla Virginia per portarle dei soldi, noi ci sentivamo più legati di qualunque altro legame parentale potessimo mai avuto avere.
In quei giorni non feci altro che scrivere ininterrottamente.
Scrivevo di noi.
Di Lennon.

Rose Anne, la mia ex moglie, mi chiamò il mese successivo dicendomi che aveva partorito. La chiamata si concluse dopo cinque minuti e tre secondi di puri insulti, due minuti li passò a piangere, e l’altro minuto e mezzo lo usò per raccontarmi del dolore indescrivibile del travaglio. A quanto pare non era da sola in ospedale, e questo mi rincuorò. Era nata una bambina, due chili e cinquanta grammi, tanti capelli biondi com’erano quelli di sua madre, occhi vispissimi e pianto stridulo. La mia bambina. Avevo bisogno di lei. Il quindici ottobre dissi a Lennon che sarei dovuto ritornare in West Virginia, lei non mi rivolse la parola fino al giorno della partenza.
«Tieni. Che le porti fortuna», mi consegnò un acchiappasogni nelle mani, era piccolo e di color rosa, disse che era un regalo per la bambina. «Non mi scorderò di te» furono le ultime parole che sentii dalle sue labbra.
L’acchiappasogni non portò fortuna a mia figlia, Elizabeth Lennon H., ma la portò a me.
Nei mesi successivi un editore di New York decise di editare e pubblicare il mio romanzo, e da lì a poco, diventai uno scrittore affermato con una discreta fama. Non passai più un solo giorno senza ringraziare Lennon per tutto quello che mi aveva dato, l’Arte di esprimersi e di essere liberi, e quando il mio manager mi organizzò un incontro a Brooklyn sperai di rivederla con tutto il cuore.
Firmavo le copie del libro a ogni genere di persona, dalle anziane signore con nipotini per mano, a giovani donne che desideravano immedesimarsi nella protagonista. Salutai l’ultima signora e mi portai una mano alla bocca per non essere scortese e tossii. «Buongiorno» non guardai il viso di quest’ultima, ma mi soffermai sulla rotondità del suo ventre; poteva essere incinta di qualche mese, tre al massimo.
«Il nome prego?» azzardai, rigiravo la penna tra le mani assorto nei pensieri più tristi, mi mancava quella ragazza.
Non mi disse il suo nome, ma alzando gli occhi, la risposta mi venne più facile di quanto pensassi. Era lei. E chi l’avrebbe immaginato che a distanza di mesi l’avrei rivista con un pancione e vestita di un colore che non fosse il nero. «Lennon» feci vibrare il suo nome tra le mie corde vocali, in silenzio, come fosse un segreto.
Provai una pena indescrivibile nel vederla così, a mala pena badava alla sua di vita, come avrebbe potuto badare a quella di un essere che era tanto innocente quanto lo era lei.
E il padre? Chi era il padre del futuro nascituro?
Spero non il ragazzo pieno di tatuaggi con cui scappava ogni tanto, oppure quello che indossava quegli orribili mocassini color ocra, e no, no, non posso pensare a quello che un giorno trovai nudo nel bagno quasi in overdose. Lei non si meritava altri bambini, oltre a se stessa e a quello che portava in grembo da curare, lei aveva bisogno di essere accudita.
Di fianco a lei si presentò un giovane ragazzo con un aspetto formale. Non indossava i mocassini, ma delle normali scarpe da ginnastica, e tutto sommato era ben curato, e indossava anche una bella cravatta. Non sono mai stato invidioso di quei due, quando la vidi andarsene le augurai tutto il bene del mondo, e mi promisi di ritornare a Coney Island, così magari le nostre bambine avrebbero potuto giocare insieme un giorno.
Ma l’amai, l’amai tanto.
E questo mi venne difficile nasconderlo.
La mia vita proseguì nella più completa solitudine, Rose Anne mi lasciò, ma ottenni comunque l’affidamento congiunto di Elizabeth. Comprai la casa del bisnonno di Lennon perché in qualche modo era l’unica cosa concreta che mi era rimasta di lei, e mi ci stabilii. Non ebbi più sue notizie, ma in cuor mio sapevo che stava bene. Ogni notte mi addormentavo con il ricordo di noi due che ballavamo Frank Sinatra illuminati da una luna piena in background, e mi svegliavo sudato sorridendo al ricordo della sua radio sul comodino (dove ora tenevo una foto di mia figlia), che puntualmente alle otto di mattina passava Feeling Good di Nina Simone.

Me la sono cavata con un cuore spezzato e una morte felice.
E ci misi anni prima di capire, che l’essere umano è la forma d’Arte più complessa in assoluto.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010