Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
18ª edizione - (2015)

Angelo custode

Tutto era così nero che si chiese se fosse sveglia, poi un dolore lancinante al polso sinistro le fece capire che no, non stava sognando.
Provò a toccarsi il polso dolorante, ma un rumore metallico la bloccò immediatamente.
Il suono rimbombò su pareti invisibili per un periodo che le parve infinito, riempiendole la testa, impedendole di pensare ad altro se non ai brividi che le correvano ghiacciati lungo la schiena.
Provò a concentrarsi sui polsi, per capire da cosa derivasse quel rumore così agghiacciante e trovò solo freddo, un freddo che si attacca alla carne, per entrare nelle ossa, oltrepassando ogni resistenza quali pelle, muscoli o altro.
Pensò a delle catene.
Il panico le serrò la gola anche solo al pensiero di quella parola. Catene.
Catene significavano prigione, nella sua testa significavano posti lontani centinaia, se non migliaia, di chilometri dai suoi orizzonti.
Vagò con lo sguardo tutto intorno a sé, senza trovare altro se non l’oscurità più totale. Nero, nero, nero… Nero ovunque.
Lei odiava il nero. Provò a cercare dei colori nei suoi capelli, nella sua pelle, ma tutto era nero come la pece. Per ritrovare un po’ di calma, chiuse gli occhi e si concentrò sul suo respiro, cercando di espandere i polmoni oltre la cassa toracica, come aveva letto in qualche libro. Funzionò. Una calma surreale la pervase, dandole la possibilità di concentrarsi sullo spazio che la circondava.
Non percepiva nulla. Provò a scandagliare la mente in cerca di qualche indizio, seppur minimo, che le rivelasse dove e perché era imprigionata, ma tutto quello che riuscì a ricordare fu il vento freddo, che le pizzicava le guance.
Frustrata, aprì gli occhi, ma ancora il nero dominava la scena. Riempì i polmoni pronta per urlare, per squarciare quella cappa che le gravava addosso, per riuscire a esprimere tutta la sua paura, tutto il suo dolore, tutta la sua rabbia. Era sull’orlo del precipizio, stava per crollare e avere una crisi isterica, o forse una crisi di pianto, forse neanche lei lo sapeva: avrebbero potuto essere entrambe, insieme, forse nessuna delle due. La paura le stava lacerando il cuore in un puzzle che nessuno avrebbe mai saputo risolvere.
Poi un suono. Un suono così flebile che pensò di averlo immaginato. Un suono lento, ritmico, che andava crescendo. Pensò subito a dei passi, passi sconosciuti, di cui non conosceva la cadenza. La paura l’attanagliò, più forte di prima, se possibile. Il ritmo del suo cuore andava impazzendo, sempre più veloce, sempre più irregolare. Quei passi potevano voler dire tutto e niente per lei. Potevano essere la sua fortuna e la sua disgrazia. Potevano essere la differenza tra vita e morte.
I passi cessarono all’improvviso, come i battiti del cuore e i respiri della ragazza. Poi un rumore metallico, uno scatto, il cigolare dei cardini di una porta. E la luce.
Una luce fredda, un solo raggio che le lambì metà volto, scoprendo i suoi capelli bianchi come la neve e i suoi occhi rossi come il sangue, i suoi marchi distintivi, quelli che la marchiavano come l’Albina, come la diversa, come l’invisibile, come il fantasma, quello dimenticato, quello a cui nessuno presta attenzione se non per rivolgere occhiate di paura e disprezzo. La luce improvvisa la costrinse a chiudere le palpebre, che poi, lentamente, si riaprirono a quella flebile luce , permettendo agli occhi di distinguere una sagoma.
La sagoma si avvicinò lentamente e i passi rincominciarono: uno, due, tre, quattro… diciassette, come gli anni della ragazza. La sagoma si abbassò e aprì le ali. Due ali grandi, maestose, potenti, terrificanti e meravigliose. Due ali da angelo. Ora la sagoma prendeva forma: i capelli rossi, gli occhi verdi incastonati in un volto bianco come il latte e bellissimo.
L’Angelo le alzò il mento con una mano finché i loro sguardi non si incrociarono.
Era impossibile distogliere lo sguardo da quegli occhi penetranti, meravigliosi eppure così freddi, che sembravano accusarla. Chiuse le ali.
«Andromeda Doré» la chiamò l’Angelo, con una voce dolce come il miele, ma che nascondeva una rabbia e una tristezza sovrumane.
«Andromeda Dorè, perché l’hai fatto?» chiese l’Angelo.
La ragazza, che aveva da poco ripreso a respirare, si immobilizzò; dentro la sua testa una domanda lancinante rimbombava : cosa ti ho mai fatto di male?
L’Angelo ripeté la domanda, questa volta con più rabbia.
La ragazza non rispose, ancora. Improvvisamente l’Angelo riaprì le ali, si voltò e fece per andarsene, quando la ragazza si alzò di scatto e si protese verso di lui, ignorando il dolore ai polsi. «Aspetta! Non andare!» urlò.
L’Angelo, ormai distante da lei, si voltò, con la mente già rivolta all’esterno.
«Cos’ho fatto per meritarmi questo?» chiese la ragazza aprendo le mani per indicare lo spazio attorno a sé, le guance rigate dalle lacrime.
L’Angelo le si riavvicinò.
«Andromeda Dorè, come fai a non rammentare? Quello che hai fatto ti ha costretta alla dannazione eterna e tu non ricordi? Come fai? Come fai a non ricordare il vuoto sotto di te, il vento che ti sferzava il viso, l’impatto contro l’asfalto? Come? Ti sei suicidata, Andromeda Dorè, hai scelto la via più facile, la via più stupida e insensata e ora il tuo castigo sarà eterno.»
I ricordi assalirono la ragazza, come le onde fanno con gli scogli durante una burrasca.
Si pentì subito di quel gesto avventato che l’aveva costretta a lasciare quel mondo così bello, fatto di tristezza ma anche di gioia, di quel gesto che l’aveva costretta a lasciare il mondo che amava, per ritrovarsi nel suo incubo peggiore.
«Andromeda Dorè, sei morta lunedì 25 maggio 2015, il giorno del tuo compleanno. Perché l’hai fatto?» chiese l’Angelo.
La ragazza rispose in un soffio, così piano che anche lei fece fatica a udire: «io… non lo so».
L’Angelo si voltò, poggiò la mano sulla maniglia della porta, guardò la ragazza e sussurrò un «mi dispiace», poi varcò la soglia, rendendosi sordo davanti a tanta disperazione. Stava chiudendo la porta, sapeva che non l’avrebbe mai più riaperta.
Lanciò un ultimo sguardo alla ragazza e si accorse che gli stava gridando qualcosa. Di solito non avrebbe sprecato un secondo di più con un suicida. Per lui erano la feccia del mondo. Per lui chi rifiuta il dono della vita non ha diritto ad altro che sofferenze, ma aspettò.
«Ti prego, aspetta! Farò qualsiasi cosa, solo non lasciarmi qui!» urlò la ragazza.
L’Angelo fece uno scatto, cogliendo di sorpresa la ragazza, che per poco non si mise a urlare e le sussurrò a un orecchio: «Davvero farai qualsiasi cosa?» le chiese con la voce più dolce del miele, sottolineando volutamente quelle ultime due parole, per farla riflettere.
«Sì» rispose in un soffio la ragazza.
Fu colpito da tanta determinazione. L’Angelo pensò alla ragazza, la guardò, si perse nei suoi occhi rossi, così belli, così insoliti. Forse, in fondo, un po’ la capiva: non doveva essere stato facile vivere fra tutti quei ragazzi, sapendo di essere l’unica diversa; ma non la perdonava. Questo mai. Pensò alla colpa della ragazza e pensò a quelli che, come lei, trovavano nell’arrecarsi volontariamente la morte, una soluzione. Pensò che solo chi aveva provato in prima persona quelle sensazioni, quella voglia di morire per non sentire più dolore, potesse salvarli. Pensò a quel qualsiasi cosa.
Pensò, infine, che fosse uno scambio lecito: salvare vite per non dover patire la dannazione eterna e non ebbe più dubbi. In un sussurro le diede la soluzione: «Allora ripagherai il tuo debito, donando agli altri il coraggio che non hai saputo avere» disse, una mano sulla maniglia della porta.
Fece una pausa, una pausa lunga, di quelle che ti fanno balzare il cuore in gola, poi le fece un sorriso, mentre un suono confuso iniziava a echeggiare nella stanza.
L’Angelo chiuse di scatto la porta, facendo ripiombare la stanza nel buio più assoluto. Il freddo rincominciò a sfiorarle i polsi, come a delineare i suoi sentimenti. Una frase, però, risonava nella stanza; una frase che fece tornare i colori nel suo cuore: «Andromeda Dorè, sarai un Angelo Custode».


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010