Danae captiva - tra i veli del mito
Distrutta, ma non spezzata; impotente, ma non domata.
È questo che penso guardando le cicatrici e i lividi violacei che sigillano le ferite aperte sul mio corpo seminudo.
Trovo la forza di sollevare la testa e osservare la catena che lega il mio polso ad una delle sbarre della finestra. Liberarsi da quella non è possibile: a nulla sono valsi i tentativi delle prime settimane di prigionia. Lascio scivolare lo sguardo oltre la catena, oltre le sbarre, e vedo la solita distesa azzurra, le onde luccicanti stagliano il loro profilo delicato contro la luce del sole.
Libertà.
Ma io non cederò, non finirò come le altre, che si limitano a giacere silenziose e docili nelle celle accanto alle mie, addomesticate, sconfitte.
Non accetterò che il mio corpo sia ridotto ad un oggetto per il resto dei miei giorni, non la darò vinta a quei porci che entrano nei camerini dove siamo rinchiuse, proprio come si entra nei bagni pubblici.
Ma non sono un’ingenua, e non sono un eroe. Nella mia storia non ci saranno fughe spettacolari in mezzo all’oceano.
Riesco a trascinarmi fino alle sbarre della finestra, deglutisco a fatica e chiudo gli occhi, lasciandomi inebriare dall’aria salmastra e frizzante del mattino, tanto diversa dal lezzo delle celle da sembrare quasi profumata. Profumo di vita.
Ormai non sento quasi più niente: da due giorni ho perso gran parte della sensibilità del corpo, ma tanto non fa più differenza. È parecchio tempo ormai che non considero più quel cumulo di ossa e carni come un corpo, il mio corpo: non sono che uno spettatore, un’anima. La mia presenza così vicina a questo sangue non è altro che una coincidenza, certamente non mi riguarda.
È per questo che non mi tocca più di tanto vedere cosa succede al corpo che un tempo chiamavano mio. Anzi, non saprei nemmeno dire con esattezza cosa gli sia successo, anche se a giudicare dalle ferite e dai lividi dalla forma allungata sarei tentata di azzardare che mi hanno frustata, o bastonata.
Non che cambi qualcosa.
Abbasso lo sguardo, ma sotto l’ombelico non vedo che linfa scarlatta — generosa — che scende fino alle caviglie. Questa è sicuramente una buona cosa: non tocco cibo né acqua di mia volontà da ormai tre giorni, e l’aver perso sangue non fa altro che accelerare i miei programmi: non ho altri mezzi per uscire di qui, per vedere quell’oceano fatto di cielo liquido senza che le sbarre mi coprano ogni tramonto infuocato che sfuma tra le onde.
La cosa, il digiuno intendo, non penso lo abbiano preso troppo bene. Questo, almeno, spiegherebbe le percosse. Eppure, nonostante cerchi costantemente di sforzarmi, non riesco a ricordare di averle ricevute: da quando non mangio ho iniziato ad avere questi lunghi vuoti in cui non ricordo nulla di quanto accaduto, il che, devo ammettere, è forse una delle cose che mi spaventano di più.
Non che la cosa m’importi più di tanto, anzi, nella mia apatica indifferenza sono sicura di non essermi mai sentita così bene, fisicamente intendo. Smettere di avere un corpo, il giacere senza preoccupazioni, e il solo attendere senza più la fatica di dover sperare danno una grande pace interiore, quasi impossibile da descrivere a parole. È come aver già superato le labili barriere umane: quando guardo qualcosa diverso dal mare, lo faccio con un sorriso sardonico, quasi divertito. Povere ragazzine piagnucolose, poveri uomini schiavi dei loro istinti, e tutti loro, uomini e donne, costretti a soffrire nel fare cose così stupide. Che senso ha il sesso? E i ripugnanti ansiti bestiali delle celle? E le risate di scherno?
In qualche modo mi sento superiore: non ho occhi che per quella sconfinata distesa cobalto io, non ho tempo da sprecare per gli esseri umani.
Deglutisco piano, ma la saliva gratta in maniera insopportabile la gola.
Male significa che posso sentire ancora il dolore, anche se solo in gola.
Finalmente mi accorgo che Eλπίς mi sta fissando con gli occhi umidi dalla cella di fronte alla mia. Mi limito a ricambiare lo sguardo, ma poi ci ripenso, mi concentro, e con un enorme sforzo riesco a coordinare i muscoli delle guance, e le estremità della mia bocca si sollevano di qualche millimetro. Non penso che sia uscito un vero e proprio sorriso, ma il senso sicuramente le è arrivato.
«Non farlo…» mima le parole con le labbra, lo sguardo stanco di chi non ha più nulla da perdere.
«Non lasciarmi qui da sola…».
Il suo volto, un tempo chiaro e innocente, con quei suoi occhi così caldi e delicati, è irriconoscibile.
Mi dispiace Eλπίς, non lo dico solo per dire, mi dispiace sul serio, ma non posso rimanere qui. Siamo troppo diverse tu ed io, anche se il destino ci ha riservato un percorso fin troppo simile.
Tu hai ancora qualcosa in cui sperare, qualcuno per cui pregare la notte.
E la tua speranza può resistere ancora molti anni. Ti sei ormai abituata alla nostra nuova vita, se vita si può chiamare l’esistenza che ci obbligano a condurre qui. Io non mi abituerò mai.
E ho scoperto di avere un potere più grande del loro su quel corpo che giace così vicino alla mia anima, un potere ancora più grande della loro forza e della loro brutalità: ho il potere di portarglielo via.
Mi dispiace, Eλπίς, di lasciarti qui, da sola. Sai bene che è colpa mia se ci hanno portate qui.
Non potrei mai vivere una vita di altri due, tre anni al massimo, costretta a vedere come ti picchiano o ti violentano ogni giorno, sapendo di avertici condotta io. Se solo potessi, se solo avessi il coraggio di proportelo, ti direi di seguirmi verso la libertà, ma so che sei troppo attaccata alla vita, per morire.
E so che non sarebbe giusto chiederlo, non a te: cercheresti di convincermi.
“Non è poi così male” mi diresti. “Non è poi così male”.
Cerca di capire la mia scelta, e vivi! Vivi per entrambe, perché nessuno sa cosa ti riserverà il destino: so che uscirai di qui, semplicemente lo so, e una volta libera potrai finalmente riabbracciare coloro che ami, e che darebbero qualsiasi cosa pur di rivederti viva.
E se nella tua felicità di tanto in tanto vorrai ripensare a me, il mio ricordo tornerebbe a vivere in te, ed io con lui.
Io non posso uscire di qui, non viva: dicono che la speranza sia l’ultima a morire, ma quando muore quella non c’è più niente da fare. Ci manteniamo in vita per coloro che amiamo, e che ci amano, perché senza di loro ci limiteremmo a sopravvivere, e io non ho più nessuno. E non sono certo un animale, non lascerò che il mio corpo esista solo perché un giorno possa essere terminato per mano loro. Giungere alla libertà insieme non è possibile, e questo lo sai meglio di me.
D’altro canto io non ho più nessuno su questa terra per cui valga la pena lottare, resistere: mia madre sta aspettando che la raggiunga nei riflessi cerulei del mare da tanto tempo, e immaginare il suo sorriso caldo fa male, tanto male.
Ora capisci perché devo morire per essere finalmente libera?
Eλπίς, vorrei poter riuscire a parlare, o che almeno potessi sentire questi miei pensieri. Vorrei che la smettessi di piangere, perché io sono felice e anzi sono io che piango per te, anche se non penso che dai miei occhi potranno mai più sgorgare lacrime: effetti collaterali del digiuno, sai.
Ho paura, una paura tanto folle da essere dolorosa. Ma le onde di zaffiro mi incantano.
Tutto ciò che vorrei chiederti è scusa, mia Eλπίς, mia Elpis, mia Speranza.
Scusa se per causa mia ti hanno strappata alla tua famiglia, se sei costretta a soffrire ogni giorno. Scusa se non so essere un’amica così forte da aspettare la tua felicità per morire.
Imploro i cieli perché tu possa un giorno accogliere queste mie scuse che non ho la forza di pronunciare, e ti auguro ogni possibile bene e felicità nella vita.
Voglio solo che tu sappia che ogni sera, rinchiusa qui dentro nel freddo umido, mentre tu pregavi per i tuoi amati genitori, per tuo fratello e le tue sorelline, io pregavo per te, come sto facendo ora, perché tu un giorno possa essere felice, e rinuncio volentieri alla mia vita perché tu possa guadagnare la libertà.
Spero che questa mia morte sia il prezzo sufficiente al dolore che il solo fatto del mio esistere ti ha procurato. E il prezzo per la tua libertà.
Scusami.
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