Nero mascara
di Luna Gusella
Terzo premio
Cammino per marciapiedi ghiacciati dalla notte, alle prime e buie ore del mattino, in un sabato d’inverno. Per strada ci sono solo anziane signore impellicciate, che portano a spasso cani dalla misura di un topo; un signore ubriaco, completamente steso sul marciapiede; e camion della spazzatura, unica distrazione da quel silenzio ovattato che ti culla pian piano in un profondo sonno cerebrale. L’odore è di birra e sigarette. Giro l’angolo e sbuco in una piazza, in cui l’ipnotica monotonia si trasforma in caotica fretta di mamme con le ingombranti cartelle dei figli in spalla. Salgo sull’autobus numero 92, non l’ho mai visto così vuoto. Mi siedo in un posto singolo in fondo, metto le cuffie nelle orecchie e guardo fuori dal finestrino. I miei occhi si muovono rapidi a seguire macchine ghiacciate che affiancano l’autobus; il fumo esce dai tubi di scappamento, danza tra il freddo delle sette e mezza e poi sparisce tra la nebbia.
Qualcuno si siede davanti a me, io non tolgo gli occhi dal finestrino; sento il suo sguardo su di me, è una sensazione debole, ma fastidiosa. Continua a guardarmi. Mi giro verso di lui e mentre mi tolgo una cuffietta, gli chiedo in modo brusco cosa voglia. Ha gli occhi nerissimi, profondi; ha gli occhi di John, e non riesco a fare a meno di guardarli.
«Se potessi rinascere in un anno della tua vita, cosciente di quello che hai passato fino ad ora, quando vorresti rinascere e cosa cambieresti».
Il suo tono non è interrogativo, è più un tono di chi ha ripetuto la stessa cosa tante volte, come se me lo avesse già chiesto. Continua a guardarmi. Sussurro: «Johnny», ho le lacrime agli occhi.
Lui sorride, come se lo conoscesse, poi alza le sopracciglia, serra la bocca, si tocca la palpebra dell’occhio sinistro con il dito indice, piegando la testa. Ho gli occhi sbarrati. Fa di no con la testa, lentamente: «Paul Dunfy» mi tende la mano. Non mi muovo. Sono impietrita. Lui si avvicina e mi sussurra all’orecchio: «Non è colpa tua». Il mio petto crolla, mi brucia la gola, non sto respirando, il mio cuore sembra molto più pesante e sento i polmoni ingombranti e grevi, una lacrima attraversa veloce la mia guancia destra e riga la pelle di nero mascara.
Paul prima di scendere, saluta il conducente. Lo chiama per nome, sembrano essere amici, sembrano conoscersi da molto. Il mio sguardo è perso nel vuoto, non sbatto le palpebre, deboli respiri entrano ed escono dalle labbra secche mezze aperte. Con il dorso della mano asciugo la lacrima, un movimento veloce e violento, e torno a guardare il finestrino.
Per tutto il giorno ho pensato a quello che mi ha detto Paul, al suo sguardo, al suo tono calmo e indifferente, alla sua reazione dopo il nome John.
Se potessi, cambierei qualcosa di quello che è successo? Ne sarei stata capace? Sono io la causa? Mi sforzai di ripercorrere con la mente il ricordo di quella sera, di quei giorni. Cercavo di togliermi quel peso dal petto, quel senso di colpa che da mesi mi tormentava.
Ero a casa di un amico mio e di John. Compiva sedici anni. Ricordo ancora la musica, bassi potenti, il pavimento che si muoveva per i salti degli invitati che ballavano, odore di alcol, bicchieri di carta. La festa finì verso le due. John aveva un motorino e io non volevo farmi tredici fermate di notte.
«Dai Johnny, portami a casa» le mie parole, noncuranti, pronunciate una dopo l’altra; io, ignara, serena. Avrebbe dovuto fare solo un pezzo in più: due vie e un incrocio. John sorrise, alzò le sopracciglia, si toccò la palpebra dell’occhio sinistro con il dito indice, piegando la testa; e annuì. Salimmo sul motorino, velocità, vento, motore, i suoi capelli ricci in faccia. Arrivammo a casa mia, mi disse che l’indomani sarebbe passato a prendermi per andare a scuola, mi salutò con un bacio sulla guancia e io entrai in casa. La mattina dopo lo aspettai inutilmente per venti minuti, poi decisi di andare da sola.
Tornai a casa verso le due, la porta non era chiusa a chiave, entrai. Vidi mia madre per prima, era in piedi, in soggiorno, camminava nervosamente in cerchio; poi sul divano: i genitori di John. Chiesi più volte cosa stava succedendo.
Mi rispose sua mamma, con una voce flebile: «Johnny, steso, sull’asfalto, sangue, motorino, incrocio, una macchina e il guidatore ubriaco».
Torno nel presente. Torno a respirare. Ho gli occhi gonfi, rossi, le guance rigate di lacrime.
Vorrei solo ritrovarmi cinque minuti prima di pronunciare quelle parole, stare zitta, salutarlo e farmi tredici fermate di notte. Forse ora sarebbe qui.
La mattina dopo, sull’autobus numero 92, mi faccio coraggio e chiedo al conducente come conosce Paul. La sua risposta mi sorprende: non sa chi sia. Penso che non sappia il suo nome e lo descrivo, ripete: «Non so di chi stai parlando, ragazzina».
La mia fronte si corruga, strizzo gli occhi. Sento delusione, frustrazione, ma mi sento anche più leggera. «Non è colpa tua», ricordo.
Mi siedo in un posto singolo in fondo, metto le cuffie nelle orecchie e guardo fuori dal finestrino.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni