9 luglio
di Anna Chiara Bressi
Primo premio
Per molti altri bambini il 9 luglio era un bel giorno di vacanza, in cui godersi la calura estiva in piscina o, per i più fortunati, in spiaggia. E lei, beh, lei era, in teoria, tra quei fortunati, o almeno lo era stata fino a quel momento.
Dopo l’ennesima nottata trascorsa tra bottiglie d’acqua svuotate e conseguenti numerosi giri al bagno, arrivò il più strano dei mattini, pallido per le nuvole che velavano il sole, pallido come il suo viso stremato. Sua madre, memore dei racconti di un amico, aveva deciso di non credere più ai «Ha appena finito la terza, il primo anno scolastico davvero impegnativo, sarà solo stanca» e «Fa molto caldo, sarà la disidratazione», le solite scuse che si ripeteva da qualche settimana per autoconvincersi che andava tutto bene.
Quella mattina la portò, finalmente, in farmacia. Fu questione di pochi attimi, giusto un piccolo prelievo di sangue dal polpastrello, e subito la batosta, un’iperglicemia a digiuno. Poteva significare poco altro, se non quello che ormai si temeva da giorni: diabete.
Quel piccolo scricciolino di 17 chili, che ormai non si reggeva più in piedi, fu ricoverato all’Ospedale di Lecce, il più vicino a Otranto, una località di mare che fino a poco prima era stata il suo piccolo Paradiso privato.
Il reparto era completamente impreparato ad accogliere una paziente così giovane: aghi spessi e dolorosi, stanze tristi che davano sul parcheggio grigio, infermiere non particolarmente dotate di tatto e abituate a lavorare con dei bambini. Dopo una sessione intensiva di flebo su entrambe le braccia, per recuperare i liquidi persi (quel groviglio di fili era un bel problema anche solo per andare in bagno o dormire), arrivò il tragico momento della prima iniezione. E poi arrivò la seconda, e la terza. Al che, intuendo che qualcosa non andava, perché gli altri bambini non avevano quei lividi sulle spalle che le siringhe le lasciavano, la piccola chiese alla sua torturatrice quante ancora ne mancassero per poter tornare al mare: «Dovrai farle per tutta la vita, non si può guarire» rispose quella, impassibile.
Forte dei suoi sette anni e mezzo, non disse niente, si limitò a fissare il muro verde acido di fronte al suo letto e, quando finalmente rimase sola, si lasciò rigare la guancia da una lacrima.“Tutta la vita!”
Aveva sempre odiato le cose indeterminate, fin dall’asilo era sempre stata molto razionale, con manie di controllo. E tutta la vita di certo non era una risposta che le piaceva.
Dopo tre infiniti giorni di agonia, con i polpastrelli lividi per i prelievi, tutta indolenzita, fu
finalmente trasferita al San Raffaele di Milano, una struttura molto più avanzata, con dei pungidito che permettevano di ottenere quelle otto goccine di sangue al giorno senza eccessivo dolore.
Ormai aveva capito che, per quell’estate, di mare non se ne sarebbe più parlato; si sforzò di vedere il lato positivo della situazione, almeno era tornata a casa in aereo, invece di sorbirsi le solite quindici ore di macchina. Ma anche questa disperata ricerca di ottimismo fu delusa.
«Oggi ti mettiamo il microinfusore, così quando è ora di mangiare puoi superare tutti i bambini in fila per fare la puntura» le disse il primario.
Tutta contenta di quel super-pass, si avviò verso l’infermeria, e lì scoprì che questo fantomatico microinfusore non era affatto una di quelle targhette che avevano i medici sul camice, bensì un coso gigante che avrebbero attaccato sul suo pancino, con un ennesimo ago. Si sentiva uno scolapasta.
Fu il colpo di grazia, si rinchiuse in un bagno e crollò in un pianto disperato, col forte desiderio di staccarselo di dosso ma, allo stesso tempo, con la paura di sentire ancora più male.
La mamma era spesso lì con lei in ospedale, eppure la sua presenza non serviva a tirarla su, nessuno poteva consolarla, nessuno la capiva. E come avrebbe potuto?
Agli inizi non si rendeva conto di tutto quello che era successo, le fu solo imposto un nuovo stile di vita: «Decidi quali alimenti super-sani mangiare, pesa tutto, calcola i carboidrati, infilaci un po’ di matematica, ed ecco quante unità di insulina iniettarti», il tutto supervisionato strettamente dai medici.
Così, tra ospedali, cliniche e visite dalla psicologa, l’estate finì, e dovette tornare a scuola: dopo un primo periodo in cui era diventata il fenomeno da baraccone della classe, tornò a una pseudonormalità.
Allora era ancora tutto semplice.
Ma, insieme alla già tanto semplice età dell’adolescenza, arrivarono anche altri problemi, come le prime prese in giro cattive: «Drogata, me ne regali una?», «È colpa tua, non avresti dovuto abbuffarti di dolci da piccola», «Non mi toccare che mi contagi», «Perché tu puoi mangiare durante le lezioni? Vorrei essere anche io come te».
Già, e lei avrebbe fatto volentieri scambio con quelle ragazze spensierate, il cui problema più grande era probabilmente quali vestiti indossare o con che ragazzo andare al cinema.
E non stava neanche a spiegarglielo che nelle siringhe non c’era eroina, che il fatto che il diabete venga a chi mangia troppi zuccheri è una diceria bella e buona (e che lei, anzi, non aveva mai mangiato tanto) e che non è assolutamente contagioso.
Un altro incubo erano le pizzate di classe: regolarmente, ogni sera in cui usciva a mangiare la pizza, passava poi la nottata in bianco a fare la spola tra il frigo e il bagno, scolandosi bottiglie d’acqua da un litro e mezzo alla volta. Un delirio, nel vero senso del termine, ma la pizza era troppo buona per farne a meno, per poi, cosa, magari ordinare un’insalata e sentirsi ancora più diversa?
Perché in ospedale, a ogni controllo, il diabetologo le ripeteva che era una ragazza come tutte le altre, che la malattia non avrebbe cambiato la sua vita?
Come gli altri un cazzo!
Una partita a pallavolo non premeditata, un improvviso sbalzo di adrenalina — per una verifica a sorpresa o per l’improvvisa comparsa della cotta del momento — oppure un gelato preso in un locale senza un bagno dove rifugiarsi a fare l’insulina, e lei iniziava a tremare e si sentiva senza forze o avvertiva un forte mal di testa e quel tremendo sapore di acetone in bocca. Per non parlare di ogni volta che si era sentita male durante le regate, e che si era mangiata le mani pensando a come non sarebbe mai salita in cima alla classifica per colpa di quella schifosissima malattia.
Gli altri non si rendevano conto della fortuna che avevano a essere sani; ogni volta che sentiva qualcuno dire che aveva un calo di zuccheri le veniva da urlargli addosso che non avrebbe avuto idea di cosa significasse davvero un calo di zuccheri fino a che non si fosse trovato sul pavimento in preda alle convulsioni.
Anche per lei era stato tutto scontato, fino a che non si era necessariamente dovuta confrontare con quel mondo. Durante l’ultimo periodo si era informata, aveva scoperto tanti gruppi sui social che le avevano permesso di conoscere molte altre persone nella sua stessa situazione; aveva anche, però, scoperto agghiaccianti storie di bambini che non avevano avuto la fortuna che aveva avuto lei qualche anno prima, ovvero una madre che le aveva salvato la vita, con le sue ansie ossessive — che aveva sempre odiato ma a cui era molto riconoscente — e che, non avendo avuto la diagnosi in tempo, quando finalmente erano stati portati in ospedale, era già troppo tardi e non ce l’avevano fatta.
Agli inizi si sentiva continuamente ribadire l’importanza di tenere la glicemia sotto controllo, ed era una sorta di regola che era entrata a far parte della sua routine.
Glicemia, insulina, cibo. Glicemia, sport, glicemia. Ogni azione aveva un ordine prestabilito.
Crescendo assunse nuove consapevolezze, scoprì perché i medici le avevano sempre detto quelle cose; iniziò ad andare a dormire col terrore di non svegliarsi la mattina dopo o di svegliarsi, sì, ma con occhi, reni, cuore o cervello che avevano smesso di funzionare come si deve. Già, perché non solo la quotidianità era diventata un inferno, ma rischiava anche di peggiorare!
L’ennesimo colpo arrivò quando, a una conferenza, scoprì che una persona diabetica aveva il 4% di possibilità di lasciare questa splendida malattia in eredità ai figli. Nei suoi fiabeschi sogni infantili si era sempre immaginata con almeno tre o quanto bambini, ma alla sola idea di poter condannare qualcun altro alla sua stessa vita si sentiva male.
Ma perché continuare a parlare in terza persona? Sono io la protagonista del racconto, quello che ho scritto è tutto vero e non è neanche la metà di quello che ho passato.
So che può sembrare la storiella melensa di un’adolescente mezza depressa, ma non è così, e sono, tra l’altro, perfettamente consapevole del fatto che poteva andarmi ben peggio.
Ho realizzato che le persone intorno a me non si rendono conto delle opportunità che hanno; per questo ho un messaggio per te che stai leggendo, e spero che, dopo quello che ho scritto, queste non rimangano solo parole al vento: sfrutta ogni attimo che la vita ti offre, perché ci sono persone che non lo possono fare e darebbero qualsiasi cosa per essere al tuo posto.
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