Copris Lunaris
Osservare il mondo attraverso il fondo di un bicchiere di whisky, ecco cosa gli era rimasto.
Nulla di più. Gli anni passavano e lui restava lì, immobile, condannato per l’eternità a una solitudine assoluta in quella vecchia stanza sporca nel cuore della città, imprigionato da un dio privo di pietà in un mondo che non riconosceva più come suo.
Gli capitava spesso, o meglio, gli era capitato spesso di domandarsi se fosse possibile che avesse fatto qualcosa di tanto grave da meritarsi quello che gli stava accadendo, senza trovar mai risposta; alla fine la rassegnazione si era fatta largo nel suo petto, portandolo a disprezzare la vita e tutto ciò che aveva, spremendogli le ultime gocce di umanità che portava nel suo animo.
Se lo ricordava il giorno in cui tutto era iniziato: era una fredda mattinata di un tempo che ormai gli sembrava così lontano e irreale, quando venne svegliato da un raggio di sole che era filtrato attraverso la tapparella; da subito ebbe l’impressione che qualcosa non andasse, ma attribuì il suo malessere alla sbornia rimediata la sera precedente e, dopo essersi alzato, accese la luce della sua camera per dirigersi verso lo specchio sul lato opposto della stanza.
Quando si vide non rimase particolarmente stupito; certo, il volto era segnato dagli eccessi della notte prima, ma tutto sembrava essere perfetto nella sua normalità. Eppure c’era qualcosa che non andava. In un secondo tutto si fece chiaro: non poteva essere lui la persona riflessa! Si allontanò inorridito dalla figura che si stagliava di fronte ai suoi occhi, urlando e chiedendo aiuto, dimenticandosi che era l’ unico inquilino di quel palazzo caduto in disuso.
Si nascose sotto il letto pensando ci fosse un intruso nella sua stanza, proprio come fa un insetto alla vista di un umano; dopo qualche minuto di silenzio decise di uscire e con molta cautela si avvicinò allo specchio: quando vide di nuovo quell’uomo di fronte a sé, però, riuscì a controllare l’istinto che lo spingeva alla fuga, e, osservando attentamente, si rese conto che la figura rispondeva esattamente alle sue azioni. La testa gli iniziò a girare vorticosamente: come poteva essere possibile?
«Franz! Franz!» qualcuno bussava alla porta, chiamandolo insistentemente; subito si distolse dai suoi pensieri e corse a vestirsi, per poter accogliere il suo ospite. Infilati pantaloni e camicia si diresse verso la porta e, aprendo, si trovò dinnanzi la sua amata Polina. Si sarebbe aspettato che lei lanciasse un urlo di terrore alla sua vista, scappasse, o quantomeno gli chiedesse cosa fosse accaduto, ma così non fu e, anzi, ella, dopo essere entrata, si accomodò e inizio a parlargli dei suoi problemi cercando conforto, come se niente fosse.
Franz era troppo confuso per poter capire ciò che diceva, quindi si limitava a osservarla parlare mentre nella sua testa frullavano miriadi di pensieri. Di come finì quell’incontro si ricordava poco, ma quel che sapeva per certo era che quello era stato il suo ultimo contatto con il mondo esterno. Si era sentito abbandonato, perso in un corpo che non sentiva suo, usato dalle persone a cui credeva di stare a cuore; mai una chiamata, mai una visita.
Perché nessuno si era preoccupato di come stesse? Perché nessuno aveva capito quanto avesse bisogno di aiuto?
Troppe domande e troppe poche risposte, ma ormai ripensarci era inutile perché il dolore lo aveva portato in uno stato di apatia, che lo isolava da tutto e tutti. Il mondo lo aveva trasformato, certo, ma lui si era adattato, aveva imparato a bastarsi da solo e a non farsi piegare da ciò che era diventato; col passare del tempo si era rassegnato a vivere la vita che gli era stata assegnata, aveva imparato a non chiedersi più che senso avesse ciò che accadeva, che disegno ci fosse dietro.
Era diventato un involucro vuoto. E quindi stava lì, fermo giorno e notte alla finestra, a distruggersi il fegato, che inesorabilmente si ricreava ogni giorno, osservando tutto ciò che aveva perso, con occhi privi di emozione.
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