Non c’è niente da festeggiare
I clown mi facevano paura, con il naso rosso e le scarpe stringate.
Era quell’ostentazione di allegria a turbarmi.
Non si può ostentare qualcosa che non esiste, sarebbe come voler rendere più vera una bugia. E se è una bugia tale rimane; non si muta la natura delle cose: il male non diventa bene; dolce o amaro, notte o giorno, bianco o nero.
È un’illusione il grigio, solo adesso l’avevo capito.
Mi ricordo che qualcuno un giorno mi si è avvicinato dicendo che il mio nome, Andrea, significa coraggioso.
L’andreia è il coraggio, mi ha detto.
Se avessi ascoltato le sue parole saprei anche da quale lingua derivi, ma non ho ascoltato. Non mi piace ascoltare, anche se dovrei farlo. Forse.
Me lo ripete sempre Diana.
Diana è mia mamma da circa sei anni; io le voglio bene, anche se non glielo dimostro sempre.
Mio papà mi sgrida spesso; dice che lo fa per il mio bene.
Quando lo fa, io piango.
Nessuno piangerebbe a quattordici anni e non dovrei farlo neanch’io, visto che sono coraggioso.
In realtà non sono io che piango.
C’è un bambino dentro di me, non si chiama Andrea e non ha quattordici anni.
È un bambino che di anni ne ha cinque, cresciuto troppo in fretta, con gli occhi pieni di dolore e la bocca stretta per non urlare: «Andrej».
«Perché se urli, ti picchio!» era il ritornello fisso di ogni giornata, ripetuto dall’uomo che mi ha messo al mondo.
Non ricordo il suo nome, è impronunciabile per un italiano.
Le orecchie di Andrej sono ancora piene del rumore dei piatti sbattuti a terra e del tintinnio dell’ultimo vetrino finito contro il comodino. Scheggiandolo.
È per questo che non riesco a essere coraggioso.
Ho paura del vetro e delle bottiglie vuote,
ho paura anche di quelle piene, svuotate in poco tempo.
Ho paura degli adulti e della loro aggressività,
ho paura dei bambini e della loro cattiveria.
Ho paura dei clown, che sono cattivi anche se vogliono sembrare buoni.
Divenni Andrea nel giorno del mio ottavo compleanno.
La direttrice dell’istituto mi prelevò dalla mia stanzetta e mi disse di non rifarmi il letto, che poi le lenzuola le avrebbero dovute lavare.
Mi disse di farmi la sacca e di non lasciare lì niente: «Incapace!».
Così disse, incapace.
Io le dissi che non avevo niente da portarmi dietro, che tutta la mia roba avrei anche potuto lasciarla lì, che il mio passato addosso mi stava stretto come quell’abito fuori taglia che indossavo all’istituto.
Subito dopo mi ritrovai le cinque dita sul viso e le gote in fiamme. Le sorrisi, dopotutto quello era l’ultimo schiaffo che avrebbe potuto darmi.
Nel giorno del mio ottavo compleanno tagliavo il cielo d’Europa con la mia sacca stretta in grembo.
Alla fine avevo deciso di affrontare il presente con in mano il passato.
È stato il più bel regalo di compleanno che abbia mai ricevuto: si apriva la vita innanzi a me.
Stavo lasciando la Russia, troppo grande per un bambino così piccolo.
Abitavo in un quartiere di un angolo di periferia dove il sole non riusciva a battere, dove nessuno badava alle urla di quell’uomo, perché erano tutti così lì.
Quando mio padre dormiva io mi accucciavo vicino alla finestra, ma non riuscivo a immaginare altro che un angolo di mondo non illuminato dalla luce del sole.
Scappare dalla Russia è stato il mio primo regalo di compleanno; non ho mai avuto una festa con i palloncini, la torta e i pacchetti da scartare. Niente di quelle cose lì.
Il giorno in cui nacqui, mia madre morì: una vita pagata con la morte.
Ogni compleanno era ricordato da mio padre come il giorno della fine di sua moglie, non l’inizio del figlio.
Più crescevo io, più aumentava il suo odio nei miei confronti.
Mio padre non ricordava il mio nome, perché non mi chiamava e non ricordava il mio profumo, perché non mi teneva vicino a sé.
Lui si sedeva sul letto e svuotava una bottiglia, intanto ne stappava un’altra per non perdere tempo.
Mi sono ritrovato a sperare che il mio compleanno non arrivasse mai, oppure che lui se ne dimenticasse.
Ma ogni anno era sempre peggio: ripugnanza, livore, disprezzo, disdegno, esecrazione e repulsione.
La mia più grande paura era che arrivasse il mio compleanno.
Ma adesso ero Andrea, avevo una famiglia e un cane che mi faceva le feste.
Avevo abiti della mia taglia e un letto con le lenzuola profumate dove dormire.
Andrej l’avevo lasciato lontano, ma era riuscito a raggiungermi.
Non mi spiegavo come avesse fatto a trovarmi.
Ogni notte mi raggiungeva e mi lasciava il gelo dentro.
Riusciva a levarmi via tutto il calore che i miei genitori mi trasmettevano giorno dopo giorno.
Io lo scacciavo, pensavo alla scuola, ai compiti e al mio cane.
Pensavo ai miei genitori che erano coraggiosi, che mi avevano accolto con sé pur non conoscendomi.
Ma Andrej tornava. Sempre.
Pochi mesi fa Diana, mia mamma, mi ha stretto le mani e mi ha detto che mio padre, il mio vero padre, è morto.
Io stavo volando come un palloncino pieno d’elio, come quelli delle feste di compleanno.
La Russia non mi faceva più paura, non era più troppo grande per me. Andrej, dentro di me, era felice e per un attimo mi sono illuso che anche lui potesse morire.
Mi sentivo davvero coraggioso, ora il mio nome mi calzava addosso.
D’un tratto avrei voluto una grande festa, con i bambini, la torta e i palloncini. Ma non i clown.
Per un attimo il sole è arrivato anche in quell’angolo di periferia non illuminato.
Ma non c’è niente da festeggiare: Andrej non muore.
È sempre dentro di me che piange e strepita, riaprendo vecchie ferite disinfettate, ma mai del tutto cicatrizzate.
Basta anche solo un tocco a riaprirle ed ecco allora che il sangue scorre a fiotti, sporcando ogni attimo felice.
Miasma.
Voglio assomigliare a Guido e non al mio vero padre, eppure ogni volta che mi specchio vedo quanto io e quell’uomo siamo simili.
Ho un cespuglio di capelli biondi e gli occhi color del mare.
Adoro il mare, riesco a perdermi in quella distesa blu e a chiudere le mie ferite per un attimo.
Andrej si calma in acqua e smette di piangere e scalciare.
Ho gli occhi blu, ma c’è un velo nero di dolore, proprio affianco all’iride. Chiaro e scuro, in un unico punto.
Ho la pelle chiara, le gote rosse e una spruzzata di lentiggini sul naso.
Si vede che non sono italiano, eppure mio papà ha il coraggio di dire a tutti che sono suo figlio, non curandosi delle occhiate di stupore.
Ma io non sono capace di chiudere l’interruttore di quel mare di passato in me: ogni anno lascio che il passato e Andrej si impossessino di me, dilagando nel cuore, nel fegato e nella gola e allora urlo.
Vorrei essere capace di essere davvero felice un giorno e forse, solo allora, Andrej se ne andrebbe.
Penso che ognuno di noi abbia un passato che non conosciamo e che l’ha reso quello che è.
Io ho quattordici anni, una storia da accantonare e un compleanno da festeggiare.
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