Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Seme della vita, figlia dell’estate

Ciao Summy,
non so esattamente cosa si dica a un’adolescente: «Che capelli lunghi, come sei grande, hai osato troppo con quel rossetto…».
Mi hai colta impreparata, Summy: sono uscita in costume stamattina, proprio perché non mi aspettavo di essere sommersa da una bufera di neve. Tu te l’aspetteresti la neve, in spiaggia, a luglio?
Stamattina mi sono vestita solo di tutte le storie che avrei ascoltato.
Sono una che mangia i pensieri degli altri per saziare se stessa: mangio ogni forma delle loro idee e poi le vomito su fogli bianchi.
Di professione faccio il fantasma: ascolto il rumore dei passi, come stai facendo tu, adesso, con quelle cuffie nelle orecchie.
Io non ascolto canzoni, perché non mi piace quando la vita parla di sé stonatamente.
Io salgo sui treni e ascolto lo stridio della vita quando cade e si spacca.
Mi siedo sempre qui, Summy – e respiro vita.
Faccio lo stesso percorso, ogni giorno, su questa poltrona blu, da vent’anni, da quando di anni ne avevo diciotto.
So che ti stai chiedendo perché una donna, una madre, un fantasma, una scrittrice fallita, dovrebbe andare ogni giorno – da vent’anni – fino a Venezia.
Ho circa trecento chilometri davanti a me per rispondere alle tue domande, per rispondermi alle mie.
Non rispondo alle mie domande da vent’anni, da quando di anni ne avevo diciotto.
Avevo un uomo accanto a me tempo fa.
È da vent’anni, da quando di anni ne avevo diciotto, che non ho più nessuno accanto a me.
Ho avuto una bambina a diciotto anni, o meglio, non l’ho mai avuta perché qualcuno me l’ha strappata via di dosso.
Qualcuno mi ha detto che sarebbe stato meglio così, che più avanti avrei capito – quando sarei diventata un fantasma l’avrei capito.
Questo comunque non me l’hanno detto, che sarei diventata un fantasma, intendo.
Cosa proveresti se ti strappassero la pelle di dosso, Summy? Sentiresti dolore, bambina.
Respireresti sangue e gelo, avresti l’anima esposta a tutte le intemperie.
Col sole o con la pioggia, col caldo o con il freddo, lei sarebbe lì, nuda e volgare.
Io l’anima me l’immagino come un tessuto spugnoso che succhia il dolore che una donna – una moglie, un fantasma, un utero cieco, una scrittrice fallita – può provare davanti all’indifferenza della propria madre.
Succhia proprio tutto l’anima – un amore finito, una notte eterna, una pentola da sgrassare, la pelle strappata di dosso.
Sai cosa succede se esponi un’anima al sole o al gelo? Eh, Summy, lo sai? O gela o si squaglia, ma in entrambi i casi muore.
Non succhia più e diventi un fantasma.
Quando mi hanno strappato te sono diventata un fantasma, perché la mia anima ha smesso di succhiare, perché si è squagliata o si è congelata – non lo so – perché qualcuno ha fatto sì che fosse esposta alle intemperie, perché mi hanno strappato la pelle di dosso. Fine.
In realtà è l’inizio.
La mia vita è finita quando credevo stesse per iniziare, Summy.
Era l’alba di un giorno di inizio estate di vent’anni fa.
Avevo anch’io un ragazzo biondo come il tuo quando avevo diciotto anni.
Eravamo qui, io e il ragazzo biondo.
Qui, su questi sedili blu, qui, con gli zaini in mezzo alle gambe, qui, con la chitarra in spalla.
Qui, eravamo qui, io e lui.
Qui, aveva un pacchetto incartato per me.
E qui, l’ho aperto, qui.
Mi aveva regalato una cassetta musicale del gruppo di suo fratello, quel ragazzo biondo: in realtà aveva le sopracciglia scure e gli occhi neri. Mi sono sempre chiesta se fosse davvero biondo o si fosse tinto per assomigliare al fratello.
Suo fratello era Kurt Cobain, Summy.
Forse noi dell’anno millenovecentosettantacinque eravamo tutti un po’ convinti che fosse come un fratello. Poi è morto. Kurt, dico.
È morto il 5 aprile della primavera successiva, anno millenovecentonovantaquattro.
E sei nata tu.
Si dice che quando qualcuno nasce un altro muore.
Non so come abbia reagito quel ragazzo biondo alla perdita di suo fratello: non so che fine abbia fatto la chitarra e quella cassettina musicale; non so cosa ne abbia fatto del poster che gli avevo regalato io e dei suoi capelli.
Non so se fosse tornato moro come le sue sopracciglia, non lo so.
Forse se ti avesse stretta a sé, Summy, avrebbe sputato un po’ di dolore, avrebbe perso un po’ di veleno. Forse, se ti avesse vista, avrebbe pensato a quel neonato in acqua, con le braccia aperte, ritratto sul poster in camera sua.
Si sarebbe convinto che suo fratello, prima di salire, avesse conosciuto sua figlia. Poi lei era scesa e lui era volato su, lo zio Kurt.
Solo adesso mi accorgo, Summy, della maglietta che indossi e se non nascondessi gli occhi dietro alle lenti scure, vedresti che sono sul punto di sputare acqua – tanta acqua, acqua giù per le guance, acqua fino al mento.
Ma non posso piangere, Summy, non posso.
Se bagni il ferro, diventa ruggine.
Non so quale sia il tuo colore preferito, non so quale shampoo usi, non so se da piccola piangessi quando ti lavavano i capelli, non so se i tuoi occhi si irritassero per lo shampoo.
Non so quale liceo tu stia frequentando, non so se tu sia brava a scuola, non so se ti piace leggere, scrivere, disegnare, correre, suonare il pianoforte.
Non so come ti chiami, Summy, non lo so.
So solo che stai indossando una maglietta nera con una faccia stilizzata gialla: la maglietta di tuo zio, del fratello di tuo padre, di un ragazzo biondo con una sola chitarra ma tanti sogni: Nirvana.
Ti guardo dormire, beata, con la bocca semichiusa, i capelli arruffati, le cuffie nelle orecchie a volume troppo alto.
Ti guardo perderti tra le braccia di quel ragazzo biondo con la consapevolezza di chi sa che al risveglio non sarà sola. Sai cosa penso, Summy? Che una come te sappia cosa sia il Nirvana; che una come te rotoli dentro al proprio Nirvana. E vorrei svegliarti, dirti – ehi, Summy, sono io tua madre. Fa’ un posto nel tuo Nirvana anche a me.
Io sto rincorrendo invano il mio da vent’anni, da che di anni ne avevo diciotto.
Persone come me, che cercano la vita in questi corridoi lunghi, nelle portinerie dei condomini, nelle sporte della gente, forse non riusciranno mai a incontrare il proprio Nirvana.
C’è stato un anno – forse era un mese, o un giorno, o un istante, forse non è neanche mai esistito – in cui anche io riuscivo ad addormentarmi sul petto di un ragazzo, con la certezza che al mio risveglio l’avrei trovato ancora lì, con la testa sul cuscino e gli occhi socchiusi.
È questo l’amore, Summy: restare nella stessa posizione per dieci minuti, o un’ora, o due e non muoversi per paura di svegliare l’altro, anche se hai il braccio intorpidito a furia di accarezzargli i capelli, anche se hai la gola secca, o senti il cuore negli occhi.
A me la pancia ha fatto male quando l’ho trovata vuota.
È successo vent’anni fa, quando di anni ne avevo diciotto.
Mi sono svegliata ed ero sola; non c’erano braccia intorpidite che mi stringevano, o mani che mi accarezzavano la fronte.
C’erano solo le mie, di mani, bianche con le vene viola, e la fronte che lacrimava sudore.
Fuori, in giardino, c’era il sole, giallo come la faccia sulla maglietta tua, del fratello di tuo padre, di tuo padre.
Avrei potuto anch’io spingere la tua carrozzina sul ciottolato di quel giardino, farti volare su un’altalena, toglierti le rotelle alla bicicletta, insegnarti a suonare la chitarra, guardarti sedere su una panchina con quel ragazzo biondo.
Avrei potuto, ma qualcuno mi aveva svuotato la pancia.
Capisci di essere sola quando ti svegli e non c’è nessuno che ti accarezzi le mani, ti baci le palpebre o ti arruffi i capelli; è quando ti ritrovi a diciotto anni senza mamma, senza ragazzo biondo, senza pancia piena, senza chitarra, senza Kurt che capisci di essere sola, Summy.
Quel giorno ho capito che nessuno avrebbe mai più badato alla mia presenza – o alla mia assenza, pensala come vuoi. Dentro di me cadeva una pioggia scrosciante che rendeva muffa ogni organo, ogni apparato, ogni pensiero, ma fuori c’era il sole, e i bambini che giocavano, e le mamme che spingevano le carrozzine sul ciottolato, e i gelati che si scioglievano sul cono.
Il treno continua la sua corsa, tu continui a dormire, gli scompartimenti continuano a riempirsi, il tuo ragazzo biondo continua a non muovere il braccio per paura di svegliarti, io continuo a scrivere questa lettera che non leggerai.
Siamo al trentesimo chilometro e non ti ho ancora detto niente di quel giugno anno millenovecentonovantatré. Del treno che si ferma in stazione, dei tuoi genitori e dei loro zaini da campeggio, dell’odore di pesce fresco al mercato, della sabbia tra i piedi e di quella tra i capelli; delle ustioni sul naso, delle canzoni stonate, della chitarra da accordare, delle sottolineature sulle pagine di libri letti insieme, delle notti chiare e del mare al mattino.
Ricordo che, quella mattina, dalla porta dello scompartimento mio e di tuo padre, sono entrati un uomo e un bambino.
Ricorderò sempre quell’esserino rannicchiato su un sedile troppo grande per lui, con uno zainetto rosso sulle spalle, con le scarpe con gli strappi, con la visiera al contrario.
Il padre se lo stringeva a sé e vestiva addosso l’inattaccabile quiete degli uomini che si sentono al proprio posto.
Quel bambino era completamente sordo e cieco: non avrebbe mai potuto ascoltare la voce del padre, o vedere i peli bianchi dagli anni della sua barba, o il colore dello zainetto.
Quel giorno ho capito che famiglia non era mia madre che friggeva le melanzane in giardino, o il posacenere di mio padre pieno, o il pesce che girava attorno alla sua boccia, o mia nonna che cuciva lo stesso filo da anni, come Penelope mentre aspetta Ulisse: famiglia erano quel padre e il suo bambino.
Questo dicevo al mio ragazzo biondo all’orecchio e intanto pensavo che quel bambino fosse riuscito ad entrare nel proprio Nirvana.
Sai cosa mi ha risposto, Summy?
«Secondo te un sordo-cieco in che lingua pensa?».
Era un tipo così, tuo padre: con quella sua espressione assorta, con i suoi silenzi seri, con quelle domande che poi ti logorano dentro per anni.
In che lingua pensa un sordo-cieco, Summy?
Adesso ti sei svegliata e ti strofini gli occhi. Il tuo ragazzo biondo agita il braccio intorpidito e tu ridi di gusto: e non t’importa se hai i denti piccoli e storti, se hai le labbra screpolate, se quando ridi arricci il naso.
È una di quelle risate un po’ contagiose, che ti fanno venire voglia di innamorarti pure se non lo sei, solo per vedere cosa si prova a ridere così.
A me non piacevano tanto le canzoni di tuo zio, sai? Avrei preferito ascoltare la risata del mio ragazzo biondo con le sopracciglia nere, o il rumore delle onde che si spaccano sulla riva, o quello della sua voce quando mi chiede in che lingua pensi un sordo.
Tu non hai idea di quanto mi piacerebbe, adesso, su questo treno, riascoltare il rumore di quella notte, della tua notte, Summy. Di quella notte d’estate che ci avrebbe cambiati, ci avrebbe inghiottiti, ci avrebbe uniti – tutti e tre – per poi separarci subito.
A volte penso a come sarebbero stati i tuoi compleanni se la vita non ci avesse spaccati, se la mia pancia non fosse stata svuotata, se il sole fosse sorto anche in me, al posto di morire in quel giardino con il vicolo ciottolato.
Per i tuoi undici anni ti ho comprato un album di fotografie che poi è rimasto vuoto, sul tavolo, in cucina.
Era vuoto come me quando mi hanno svuotato la pancia, come la mia testa negli ultimi vent’anni, come il treno quando parte all’alba.
Ogni anno mi ritrovavo seduta davanti a quel tavolo in cucina, con il CD dei Nirvana nello stereo, con la voce di mio cognato che riempie l’aria, che riempie i vuoti, che li riapre, che piango, ma poi mi riasciugo.
E allora mi alzo in piedi e sciacquo i bicchieri sotto il lavello.
E aspetto mezzanotte, o l’una, o le cinque; aspetto fino a quando mi addormento sul tavolo, con il braccio intorpidito. Poi lo sposto, io, perché tanto non rischio di svegliare nessuno, perché nessuno dorme su di me.
Aspetto, Summy, aspetto: aspetto che tuo padre suoni al campanello, e mi stringa, o forse no, e mi dica «oggi è il compleanno di Summy», oppure «mi manca mio fratello», o anche «ho visto un sordo pensare».
A me la musica non è mai piaciuta, Summy: io cercavo le poesie, non gli accordi, ma ho pianto quando è morto Kurt.
Forse ho pianto per tuo padre, o per te, bambina, o per la mia pancia vuota, o per quella settimana al mare, a Venezia, o per quella spiaggia di notte, dove sei nata tu e morta io.
E piedi che s’incrociavano, mentre le bocche si volevano, e i corpi che fremevano, e le mani che cercavano, che trovavano, che stringevano, quella notte.
E Kurt cantava sul nostro amore, con la sua voce registrata, e ci diceva di venire come siamo, come eravamo, come vogliono che tu sia, come un amico, come un amico, come un vecchio nemico.
E nascevi tu.
Nascevi così, Summy.
Nascevi su un asciugamano verde, su una spiaggia del lido di Venezia.
Nascevi con Come as you are dentro di noi, dentro di te.
Nascevi da due ragazzi appena diciottenni, che giuravano di amarsi, ma si sarebbero persi subito dopo, per non ritrovarsi mai più.
Vorrei venire da te e dal tuo ragazzo biondo e dirvi di amarvi, di farvi il bagno di notte, di non andare al largo però, di giocare a fare i turisti, di scattarvi tante foto e di riempirci gli album.
Vorrei dirvi, Summy, di ballare sulla spiaggia, di aspettare l’alba insieme, promettendovi che, insieme, affronterete il tramontare della vostra vita.
Vorrei dirvi di ascoltare la musica, ma, prima, di ascoltare voi stessi.
Chiedetevi cosa abbia spinto la vita a farvi incontrare, lanciate sassi in acqua facendoli rimbalzare, chiedetevi di che colore sia il retro del sole.
Indossate un paio d’occhiali e fissatelo fino a quando gli occhi non iniziano a lacrimare, fino a quando non avrete azzardato tutte le tonalità possibili.
Guardate la gente sul treno e pensate alla loro storia.
Pensate a questa donna, un po’ sbadata, un po’ sola, un po’ invisibile, un po’ matta, che vi guarda e sorride, e scrive, e guarda fuori dal finestrino.
Pensa a questa donna che ti ama senza conoscerti, Summy, che forse ti conosce più di tutti gli altri. Ti ho osservata per diciannove anni, bambina, e tu non ti sei mai accorta di me.
Ti guardavo mentre andavi a scuola, curva sotto al peso del tuo zaino delle principesse, mentre ti allacciavi le scarpe al parco, mentre piangevi perché a nascondino dovevi sempre fare tu la conta e volevi soltanto nasconderti, come me, come tua madre, che si nasconde da vent’anni e nessuno la vede più.
Ti ho osservata varcare per la prima volta l’ingresso della scuola con un fiocco stretto tra i capelli e il grembiule pulito e ti ho vista impaziente di uscire da quel cancello ogni giorno, alle quattro, con le stringhe slacciate e i bottoni del golfino allacciati storti.
Ho visto crescere i tuoi capelli, li ho visti diventare lunghi fino alla schiena e il giorno dopo essere alle orecchie. Li ho visti diventare biondi, come quelli di tuo padre e di tuo zio, e del tuo ragazzo e del mio, e poi li ho visti tornare castani. Ho visto te che ti allungavi, anno dopo anno, e ti allontanavi sempre più da quella spiaggia, da quell’asciugamano verde, dai tuoi veri genitori, da Kurt e le sue canzoni.
A volte torno alla spiaggia e ci vedo lì, noi tre, con un pallone gonfiabile bianco e rosso, con la macchina fotografica al collo, con tuo padre che urla di fare attenzione a non bagnare l’obiettivo. Siamo ancora lì, Summy, figlia dell’estate.
Resterò con te, anche se non mi vedi, anche se non mi vuoi, anche se non sai chi sia, anche se tua madre non ti ha mai parlato di me.

Sono morta a diciannove anni in una stanza bianca con il sole fuori e la pioggia dentro.
E adesso vivo su questo treno, guardando gli altri vivere e chiedendomi com’era.
Saresti morta anche tu, Summy, ma mi hanno svuotato la pancia e ti hanno fatta vivere.
E adesso vivi anche per me.


»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni

Copyright © 1999 - Comitato per Sofia - Tutti i diritti riservati.
Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010