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17ª edizione - (2014)

Il colpevole della verità nascosta - II vero caso della morte della Felicità

Se non abitate a Milano non conoscete la nebbia autunnale fredda e il caldo cocente insopportabile di Agosto. L’umidità riempie l’aria. Sarà la nebbia, sarà la mia mente, ma è da mesi che qua non ci vedo bene.
Tutto cominciò in autunno, un giovedì mattina. Dopo il solito caffè da Cova, passai al Corriere della sera dove mi aspettava la dovuta copia del quotidiano.
Il Corriere era sempre stato lì. Per quanto tempo ancora prima del trasloco della sua sede in periferia? Il Corriere era quasi casa per me, non che ci lavorassi più, non proprio. Lì però iniziò la mia carriera. Tutte le mattine infatti, più o meno alla stessa ora, passavo al Corriere e, se ero in anticipo, entravo a far due chiacchiere con i magazzinieri, bevevo un altro caffè e ritiravo i giornali da consegnare agli abbonati, alle edicole di zona, ai bar in centro. Osservare l’espressione delle persone quando leggono il titolo di copertina è stato il mio primo lavoro. Entrai in seguito a lavorare come giornalista al Corriere e vedere l’espressione della gente che leggeva qualcosa di mio era ancora più appagante.
Quel giovedì mi chiesero di aiutarli a sgomberare il vecchio magazzino. Mi fecero scendere in una cantina sporca di guerra. Le pareti erano bagnate di umidità – compiuti i sessant’anni sono queste le cose che si notano, o meglio, che le tue ossa ti fanno notare.
Quell’odore di chiuso me la ricordava la guerra, in sotterranei simili c’ero già stato da bambino, quando quello a cui badavo e da cui scappavo era il buio. Dopo aver acceso una fioca lampadina ci guardammo intorno: avete idea delle condizioni in cui si possa trovare una cantina inutilizzata dal ’53?! Non c’erano le stesse cose che avevo visto nell’ultimo rifugio antiaereo, ma una pesante scrivania sgangherata di legno, un tavolino, un vecchio quadro che non raffigurava più niente e in mezzo a scatoloni impolverati scorsi le mitiche Articolo21 in disuso da anni e irriguardosamente buttate là.
Tutto qua. Mi davano fastidio le schegge di quel tavolinetto che dovevo portare su, nessun peso si aggiungeva alle schegge. Non invidiavo i tre che arrancavano per le scale con la scrivania. Una volta su non la appoggiarono con molta delicatezza, anzi la mollarono sul pavimento che per poco non lo rompeva. Il forte colpo fece uscire un cassetto che lasciò cadere una vecchissima macchinetta trita-documenti. Di questa manco se ne accorsero, misero a posto il cassetto e lasciarono agli operatori della discarica la fatica di caricarla sul camion. Raccolsi la macchinetta nella quale era ancora inserito un foglio non completamente distrutto.
Non si leggevano bene le parole di quel foglio scritto a macchina, soprattutto nei punti dov’era accartocciato, era una bozza di una pagina di giornale. Lessi la data e la curiosità mi portò subito in archivio per rintracciare l’articolo: non era mai stato pubblicato. Uscii dall’archivio irritato ma ancor più deciso, da buon cronista, a ficcarci il naso dentro.
Dalle parole spezzate e dalle poche frasi che riuscivo a leggere dell’articolo intitolato Non aspettate stasera ad essere felici, capii che parlava della morte di Felicità, anziana signorina milanese senza parenti che ne piangessero la morte. Il pezzo finiva con le parole «vide la luce del sole, respirò la vita, e morì».
Milano è una città dove sembra che il tempo passi più veloce.
Passai settimane a cercare documenti, informazioni e qualsiasi cosa riguardasse Felicità. La sua casa era ormai abitata da gente nuova, stranieri. Milano cambiava e perdeva tristemente la memoria di sé. I vicini mi raccontarono qualche sua abitudine, dalla quale deducevo la vita di una normalissima vecchietta. A pensarci bene non sapevo nemmeno quello che cercavo ma volevo ricostruire quell’articolo d’altri tempi il cui autore era svanito nel trituratore insieme al motivo per il quale aveva ritenuto importante scrivere quei frammenti di cronaca.
Trovai il certificato di nascita e quello di morte, il nulla tra i due e un’intervista di un ignoto collega pubblicata nel libro Il tempo è l’assassino. Libro stampato solo in una quindicina di copie mai vendute. Allora non c’era nemmeno la scusa degli e-book, forse l’argomento non era attuale o interessante.
Mi ritirai nella mia casa in montagna. Solo da fuori ho una nitida visione d’insieme. Solo partendo ho la possibilità di tornare nella mia Milano, solo allontanandomi da lei sento la sua mancanza e capisco perché amo la mia città. Viaggio perché i miei occhi non si abituino mai a vedere Milano e si ricordino di osservarla cambiare. Sono affezionato al rumore del traffico e dei tram che viaggiano senza scappare, all’odore acre dell’inquinamento, al sapore del caffè che prendo ogni mattina per vivere da sveglio e che mi lascia quell’amaro in bocca che il resto della giornata ha il compito di addolcire.
Me ne vado per poi ributtarmi nel movimento della città che è vivace frenesia tra persone svelte che qualsiasi cosa facciano sono rincorse dal tempo, ritorno per rientrare nel buio della notte, illuminato non da stelle invisibili ma da lampioni abbaglianti e da insegne mai completamente addormentate e silenziose. Noto la vicinanza di antichi palazzi e delle case di ringhiera schiacciate dai grattacieli sempre più imponenti, percepisco ciò che rimane e non ciò che cambia. Osservo i giorni con il cielo completamente bianco, le albe e i tramonti che non colorano il cielo all’orizzonte ma il cielo sopra di me.
Così salgo in montagna per guardare all’orizzonte Milano, il tramonto è proprio sopra di lei, per questo salgo solo quando c’è bel tempo. E poi torno, sempre. È l’unico modo per essere soddisfatto, quasi felice.
Era un colpo fortunato ritrovami tra le mani questo caso: mi intrigava, mi concentrai sull’intervista.
«Signora Felicità, è sposata?».
«Non ho trovato nessuno che avesse senso sposare…».
«Non le bastava l’amore?».
«Quando al “ti amo” ho chiesto “perché?” non mi hanno mai saputo rispondere con le parole giuste… Ho voluto bene a diverse persone, l’unica cosa che mi sono ritrovata ad amare è la vita. l’amore vero è per sempre perché quel momento in cui hai amato valeva per sempre. Ero insegnante, ora sono pensionata e nel tempo libero scrivo il Giornale felice, pieno di buone notizie, diverso da tutti i giornali pubblicati , lo stampo di notte quando non ho più sogni e la mattina dopo lo leggo mentre bevo il caffè. Mi piace vivere come se il tempo non esistesse».
A matita intanto annotavo i miei commenti e le mie sensazioni, così mi hanno insegnato i maestri.
«E ha sempre voluto fare la maestra?».
«Il mestiere che volevo fare era la poetessa o l’astronauta ma non seppi scegliere, solo ora mi rendo conto che i due lavori coincidono , oppure sognavo di essere la rinominatrice di quadri, ho sempre adorato i quadri ma la maggior parte non si merita di esser chiamato natura morta, non trova?».
«La sua opera d’arte preferita?».
«L’amore. L’uomo non è mai riuscito a creare qualcosa in grado di competere con la bellezza della natura tranne che per l’amore».
«Che rapporto ha con le persone?».
«In pochi mi conoscono bene, mi conoscono meglio i libri e i film, non sono mai sola quando sto male o piango loro sono con me. Mi piace cambiare spesso amici. Crescendo ho trovato il coraggio di tenermi alla larga dalle persone che si arrendono, non sopporto i pigri, i tristi, quelli a cui non piace scambiare due chiacchiere e quelli che non prendono decisioni o una posizione».
«Cosa ne pensa delle abitudini?».
«Non lo so».
E pensare che proprio su quello mi ero soffermato con i suoi vicini, maledetto vizio da cronista.
«Ha paura della morte?».
«No».
«Cosa teme allora?».
«Il doversi confrontare con la realtà che cambia troppo in fretta».
«Cosa le piace?».
«Notare quello che nessuno nota».
«E cos’è per lei dunque la vita, vivere?».
«Scappare è vivere, restare no. Vivere è inseguire chi fugge».
Trovai scritto che tra i suoi vizi c’era la grappa, aveva sempre abitato a Milano, il suo frutto preferito erano le ciliegie, il suo colore preferito era il cioccolato negli occhi di chi andava sull’altalena, il prato di chi rincorreva le farfalle, l’oceano di chi giocava a nascondino.
«Il titolo del suo quotidiano sfornato in casa?».
«Non aspettare stasera a essere felice».
Più andavo avanti con questa storia meno ci capivo. Cosa significava quell’intervista e che genere di articolo era?
Tornai a Milano perché avevo deciso cosa fare. Nei miei viaggi avevo conosciuto persone che da due parti opposte del mondo soffrono, sono felici o tristi allo stesso modo. E non me n’ero mai chiesto il perché.
Cos’è la felicità chiedevo loro ma mi resi conto dalle diverse risposte che nessuno conosceva veramente la Felicità, nemmeno gli anziani che erano cresciuti con lei.
Mi sembrava strano comunque. Poter essere felici senza riconoscere o sapere chi è la Felicità? Sapere chi è, dove abita ma non capirla e non essere felici. Che senso aveva?
Scommetto che la signora Felicità lo sapeva.
Passai ore a sfogliare i registri dei cimiteri nella sua zona e la trovai. C’erano fiori colorati e profumati davanti alla sua lapide, nessuna foto. Una breve iscrizione diceva «La felicità è l’infinito».
Il colpevole della morte della Felicità era il tempo.
La signora Felicità era morta, nascosta nel suo letto, abbracciata al primo raggio del mattino. Questo nessuno lo sapeva. Forse perché l’equilibrio delle persone che sono felici senza saperlo e quello di chi sa della Felicità e non può raggiungerla non doveva cambiare.
Eppure Felicità è esistita, io ne sono testimone. So che amava la vita, che non si sentiva sola con se stessa, che è riuscita a vivere senza tempo.
Noi siamo abituati a dar un tempo alle cose, alla vita a chiamarle col nome che abbiamo assegnato loro. E se invece ci sbagliassimo? Se la Felicità non si volesse misurare col tempo?
È un solo momento che può essere infinito. Non è il per sempre, cioè ciò che dura per sempre, ma ciò che vale per sempre. Ne sono sicuro, quell’anziana signora deve aver vissuto una bella vita e aver fatto del bene. Non ne ho la testimonianza ma ne sono sicuro.
Ci devono essere da qualche parte i suoi vecchi alunni, pronti a raccontarmi di come spiegasse loro l’universo sorridendo, girando tra le mani le ciliegie come se fossero pianeti, di come insegnasse letteratura parlando delle stelle o arte, spiegando i quadri con parole che non esistono ma che di più chiare non ce ne sono. Di come si sentono, grazie a lei, importanti e grandi al mondo.
Il tempo forse cambia Milano ma non le persone. Non di certo ha effetti sulla Felicità.
Sono sicuro amasse Milano come la amo io, perché trovava nella vita milanese tutto quello che nessuno nota, cose meravigliose e non si stupiva della loro evoluzione. Certo poi le scriveva nel suo Giornale delle notizie felici.
Quello che è per sempre può durare anche solo meno di una vita, per sempre è semplicemente quando sarà abbastanza, un motivo valido per cui si è già lottato.
Le decisioni della vita non sono sempre giuste ma sempre prese. Inventare un modo di comunicare che non usa nessuno per il semplice fatto che non esiste, non ancora. Adesso eravamo in tre a sapere la verità. Io, il giornalista del trita carta e la signora Felicità.
La Felicità.
E ora che avevo forse capito che il cronista del Corriere non aveva pubblicato l’intervista per paura o per superficialità potevo pubblicarlo io in una nuova veste romanzata senza tempo, tale che la gente potesse almeno sognare la Felicità.
Era un giornale felice, senza data.
«2013, stampato per la prima volta il Corriere Del Mattino, editoriale di piccole cose piacevoli».
La sede naturalmente quella storica del Corriere della mia Milano.
È il mio lavoro. Sarà una grandissima soddisfazione notare i volti delle persone illuminarsi di Felicità nel leggere il nuovo giornale senza tempo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010