Leggo per legittima difesa
Ricordo il primo libro che lessi all’età di circa sei anni. Era un libretto piccolo sulla cui copertina era stampata un’oca bianca con un fiocco al collo e un cappellino arancione in testa.
Non ricordo bene di cosa parlasse, ricordo però che più spesso del dovuto lo prendevo e lo leggevo attentamente. Non ricordo se la storia parlasse di un’oca avventuriera o se fosse semplicemente un libro di filastrocche con coniglietti di Pasqua e topolini; quello che ricordo bene era la totale concentrazione che mi prendeva quando avevo in mano quel libretto bianco.
Era probabilmente la mia cosa preferita. Me ne stavo seduta sul mio letto, piccolo anche lui come me, come quel libretto, e me lo leggevo una, due, tre volte e anche di più. Non mi stancava mai, anche se le lettere, le frasi, erano sempre le stesse. Di tanto in tanto veniva mia madre in camera e me lo leggeva prima di andare a dormire; la sua voce dava alla storia qualcosa in più: dal tono con cui accentuava le lettere, dai gesti che faceva, la storia prendeva vita e tutto d’un tratto i personaggi uscivano, così io li vedevo parlare e agire davanti ai miei occhi. Di questo non mi stancavo mai.
Finito il periodo nel quale la mia conoscenza in fatto di libri si limitava a quell’oca dal cappello strano, cominciai a leggere libri un po’ più lunghi e articolati; stavolta si trattava di storie meravigliose, di principesse e draghi, polpi e campanari, di eroi e streghe dai lunghi artigli. Erano libri che ci davano a scuola, libri che rendevano migliore la mia convivenza tra articoli e somme, tra rimproveri e note di comportamento. A casa li leggevo sul mio letto che era stato spostato sotto la finestra: d’estate entrava tanta luce nella stanza e potevo leggere senza difficoltà, mia madre mi ripeteva continuamente di non leggere al buio, cosa che accadeva molto spesso.
Ai miei amici e a mia sorella non piaceva leggere: «Che noia!» esclamavano e in quei momenti avrei voluto vederli sommersi di libri, senza poter fare nulla. Era quello che si sarebbero meritati per aver disdegnato la cosa che più amavo.
Ciò che leggevo instaurava in me la voglia di scrivere a mia volta, ma, come mi succede sempre, scrivevo un inizio, lo rileggevo il giorno dopo, lo cancellavo e iniziavo una storia completamente diversa. Il mio computer strabordava di inizi di storie senza alcuno sviluppo; mi chiedevo come facessero gli autori delle storie che leggevo a immaginarsi una introduzione, uno svolgimento e una fine senza scrivere stupidaggini. Quelle persone scrivevano divinamente e non potevo fare a meno di desiderare di essere come loro, avrei voluto incantare la gente come loro incantavano me.
Cosa aveva leggere di così speciale? Era davvero difficile intenderlo e lo è tuttora.
Il passaggio da elementari a medie cambiò radicalmente il mio modo di vedere la lettura. Leggere non era considerata una grande cosa: se leggevi eri un secchione, e io non potevo mancare al mio perfetto alibi di sconsiderata e svogliata studentessa. Leggevo quasi di nascosto, e in ogni caso non era una cosa di cui mi vantavo troppo. Fu un periodo abbastanza povero in quanto a lettura, non ricordo nemmeno quali tipi di libri leggevo e soprattutto se li leggevo.
Ripresi a interessarmi verso la terza media quando mi capitò tra le mani la trilogia di Italo Calvino: Il Barone Rampante, Il Visconte Dimezzato e Il Cavaliere Inesistente.
Quello che preferii in assoluto fu il primo, Il Barone Rampante, pensai che avrei potuto fare come lui: nascondermi tra gli alberi con una buona scorta di libri e non scendere mai più.
Da questo punto di vista i libri erano anche abbastanza pericolosi, mi suggerivano cose che probabilmente non sarebbero state del tutto sagge. Non mi importava, ovviamente. Non avrei rinunciato a leggere per nulla al mondo. Neanche se i miei genitori ogni giorno mi ripetevano di uscire perché c’era il sole, neanche se rischiavo di essere investita camminando con un libro in mano per strada, neanche se mi veniva un terribile mal di testa in macchina. Io dovevo sapere cosa sarebbe successo dopo, immaginare delle scene nella mia testa, tifare per il mio personaggio preferito. Non avrei mai sopportato di essere interrotta.
Al momento non potrei amare i libri più di così. Li adoro, sono cose preziosissime. Non sopporto chi pensa che leggere sia tremendo, ammiro invece chi, come me, lo trova fantastico.
Di solito rispetto le opinioni altrui in una discussione, ma se qualcuno inizia con «Non mi piace leggere…» perde il mio rispetto e la mia considerazione in poco tempo.
Alla gente non piace leggere perché la gente è pigra, non perché i libri non sono belli, questo è ciò che penso e magari è sbagliato ma per me è inconcepibile non amare i libri.
Penso però che tutti dovrebbero leggere un libro almeno una volta. È qualcosa di inspiegabile, ti avvolge completamente e tutto d’un tratto sei fisicamente nel salotto di casa tua ma mentalmente in un posto di gran lunga migliore ad avventurarti tra personaggi favolosi.
C’è una frase che ho letto su una delle borse ammucchiate che mia madre tiene nel sottoscala: «Leggo per legittima difesa». Ho pensato subito che fosse una bellissima frase.
Leggo per difendermi, difendermi dalle superficialità, dalle cose fredde e vuote, anche un po’ dalle persone e dal mondo. Leggere è come sognare, essere trascinati in avventure meravigliose o nella vita di qualcuno. Una volta finito un libro senti che hai capito qualcosa di più del mondo in cui vivi.
Spiegare la lettura è qualcosa a me davvero difficile, ce la sto mettendo tutta per dare l’idea di cosa accade realmente quando si apre un libro.
L’unica cosa da fare è prenderne uno in mano e cominciare a leggere, cominciare a entrare in quelle fantastiche storie di gente, di posti, di castelli o di piccole oche dai buffi cappelli.
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