Ambra in gocce d’oro
Il fumo bianco si dissolveva leggero nell’aria pesante, umida di pianti.
Abbracci veri, di chi ama davvero, stretti stretti attorno al collo, tanto da togliere il respiro. Baci e giovani coppie felici ovunque. Vicini ai binari, sulle panchine, attraverso i finestrini. Grandi promesse prima della separazione.
Gli altoparlanti annunciavano l’ultima chiamata del treno in partenza dal binario 7. Gli ultimi ritardatari si affrettavano a salire per prendere posto. Tranne uno. Era in piedi di fronte alla carrozza, il 7 risaltava nero sullo sfondo metallizzato.
Scrutava la folla, disgustata da tutto quell’amore troppo dolce, troppo opprimente, troppo vero in un mondo cosi falso. Scrutava la folla nella vana ricerca di quel viso. Scrutava la folla nell’inutile speranza di quel sorriso. Scrutava la folla nel disperato bisogno di quello sguardo.
Di quegli occhi.
Il fischio del treno: la realtà. Il piede destro sul gradino, pronto a salire. Il 7 nero sempre lì di fronte con fare minaccioso. Il sinistro fisso al suolo, senza voglia di partire. La mente persa nei pensieri, il cuore rimasto a Casa. Di nuovo il fischio. La voce squillante del capotreno invitava tutti a salire in carrozza. Tutti.
Lei no. I capelli volavano leggeri tra i sospiri del vento. Sottili fili di rame e mogano scintillanti al Sole. Il destro raggiunse il sinistro. La mente raggiunse il cuore. La neve aveva finalmente cominciato a sciogliersi, rivelando la strada verso Casa.
È iniziato tutto qualche mese fa. Era un freddo pomeriggio d’inverno ed ero scesa in panicceria per comprare del pane. Mi aveva mandato urgentemente papà.
Suonò la campanella. Quel giorno, dietro al bancone, non c’era come d’abitudine il signor Panker, sorridente nel paffuto viso, bensì il figlio. Era senza dubbio un bel ragazzo, alto e ben piazzato, il volto solare, incorniciato da corti capelli ricciolini, era attraversato da un bianco sorriso, proprio come il padre.
Ciò che più lo caratterizzava, oltre ai modi sempre cortesi e gentili, erano però gli occhi: ambrati, color del miele di timo, i più sinceri ed espressivi che avessi mai visto.
La causa di tutto.
Dalle voci che giravano in quartiere si diceva essere molto richiesto dalle ragazze, ma non mi aveva mai attirato questo genere di argomenti. Non mi era mai interessato nessuno, anche da bambina mi isolavo per giocare. Non avevo mai avuto amici, non ne sentivo la mancanza e nemmeno il bisogno. Falsità, adulazione. Era questo ciò che mi circondava. Tutti cercavano la mia compagnia e amicizia solo perché ero la figlia del Kapua, il capo del nostro distretto: il 7.
Giravano molte voci sul suo conto: assassino, truffatore, nemico della patria, Dittatore. Non ne capivo il motivo, io lo chiamavo semplicemente papà. Ma sapevo che cercavano tutti di entrare nelle mie grazie esclusivamente a causa sua. Nessuno mi aveva mai amato davvero, apprezzandomi semplicemente per quella che ero. Nemmeno papà. Mia madre forse, ma era morta pochi anni dopo la mia nascita.
– Buongiorno, vorrei tre iarus di pane bianco per favore.
Non ero mai stata una di grandi parole.
– Grande festa questa sera? – Enorme sorriso luminoso.
– No, purtroppo ci sarà una cena di lavoro di mio padre. – Una delle solite riunioni dei capi distretto, usuali negli ultimi tempi; solitamente mi rintanavo in camera per non partecipare.
– Non ti invidio, immagino siano una noia.. Questa sera noi invece festeggiamo il compleanno di nonna, prepara la torta con i pistacchi per noi nipoti, sa che l’adoriamo! Aveva pesato e messo il pane nel sacchetto. – Sono 12 jellar e 70 jonk in tutto – Sempre il sorriso splendente sul volto.
– Cavolo, non mi bastano i soldi. Mi manca qualche monetina, le ho dimenticate a casa.
– Mi dispiace, te li scalerei volentieri ma mio padre si è raccomandato di non fare sconti. Sai, la crisi si fa sentire.
Pagai, lasciando il pane in eccesso. Uscendo trovai il signor Panker, rosso di rabbia. Entrò in negozio come una furia. Dalla vetrina vidi quel che successe poi. Le grida. Lo schiaffo.
– La figlia del Kapua!… riunione dei Kapui… Sei diventato matto?
Ero delusa e sconcertata al tempo stesso. Anche il signor Panker era uno come gli altri. Il figlio no. Si era comportato con me come con una cliente qualunque. Come una persona qualunque. Corsi a casa per prendere i soldi, per poi ridiscendere subito e pagare il resto. Aggiunsi alla spesa anche due paste alla crema e cioccolato. Insieme ai soldi lasciai un biglietto al ragazzo: «4.30 Old Park. Sono a dieta e due paste sono troppe».
Quel pomeriggio lo ringraziai e mi scusai. Si era preso uno schiaffo per colpa mia dopo tutto.
– Grazie.
Era sincero, non lo disse per gentilezza ma perché ci credeva davvero. Lo vedevo dagli occhi, brillavano. Passammo insieme il pomeriggio, seduti sulla panchina in fondo al parco, nascosti allo sguardo dei vecchi curiosi, mangiando dolcetti e parlando come amici di vecchia data.
Erano almeno sette anni che non parlavo cosi con qualcuno, quello che mi ero limitata a fare fino a quel momento era rispondere con brevi frasi inutili a domande di altrettanta importanza. Scoprii che non era tanto diverso da me, in fondo. Tutte quelle ragazze che facevano gridolini sciocchi al suo passaggio lo infastidivano. Tutti quei falsi amici che si dimostravano gentili nei suoi confronti solo per farsi vedere in giro con lui e attirare l’attenzione delle oche lo facevano sentire inutile.
«Non conta, nella vita, essere belli e popolari, l’importante è essere sinceri e giusti d‘animo».
Al momento non pensai all’importanza delle sue parole, ero troppo concentrata a osservare i suoi occhi. Parlava come un poeta, il sorriso luminoso non lo abbandonava mai, ma guardandolo davvero, non superficialmente ma attentamente, notavo che qualcosa non andava. I suoi occhi avevano un bagliore spento. Ma non glielo feci notare.
Pensavo di essermi sbagliata, che fosse solo una mia impressione. Ma non ne ero sicura. Mi raccontò la sua giornata, la mattina aiutava il padre in panicceria e il pomeriggio, se non c’era del lavoro da fare, usciva con i suoi falsi-amici. Non studiava, non più per lo meno. La maggior parte dei ragazzi faceva i primi sei anni di scuola, obbligatori per tutti, per poi abbandonare gli studi e cercare lavoro. Pochi, solo i più fortunati ne trovavano uno.
Era una legge che era stata introdotta da mio padre quando era ancora solo un saptior, aiutante dell’ex Kapua reggente: prevedeva che tutti i giovani fino all’età di dieci anni frequentassero la scuola, obbligatoria ma a pagamento, così da avere il minimo livello di istruzione per poter lavorare; dopo di che, nel caso avessero voluto continuare gli studi, avrebbero dovuto pagare annualmente una tassa pari a 6000 jellark, due anni di stipendio di un operaio. Un costo troppo alto per i tre quarti della popolazione.
Io ovviamente a scuola ci andavo. Ero la figlia del Kapua. Studiare però era uno dei suoi sogni più grandi; poter leggere e conoscere cose nuove, come i nomi delle stelle e dei pianeti e scoprire nuovi stati e regioni nel mondo. Ma non poteva, i libri costavano troppo. E io avevo in casa un’intera biblioteca inutilizzata, piena di libri vecchi e nuovi mai aperti da nessuno.
Gli proposi uno scambio: la sua amicizia in cambio di un libro al giorno. Non avevo mai pensato a qualcosa del genere.
Accettò. I suoi occhi brillarono come oro fuso al Sole. Passammo cosi i mesi successivi, la mattina io a scuola e lui a lavoro, il pomeriggio rintanati sulla nostra panchina, stretti per proteggerci dal gelo o riparati dentro qualche fienile durante i giorni di neve, persi in mondi sconosciuti, immersi in storie straordinarie, che ci facevano sognare, immaginare, viaggiare.
Liberi per qualche ora. Liberi da un mondo falso e crudele ma possessori della chiave di uno altrettanto finto ma a noi fedele. Era tutto ciò di cui avevo bisogno.
Sentirmi normale. Non la figlia, ma una figlia. Non la ragazza, ma una ragazza. Normale.
Ero sua amica. Approfittavo del fatto che amasse leggere ad alta voce per poter guardare i suoi occhi. Si illuminavano quando era felice, sprizzando luce dalle pagliuzze dorate, s’incupivano quando era triste o quando qualcosa lo turbava. Capivo ciò che provava ancor prima che me lo dicesse, sapevo ciò che pensava ancor prima che lui stesso lo pensasse. Il suo volto mentiva, nascondendo i sentimenti dietro quel fantastico sorriso, ma i suoi occhi no.
Non ne erano capaci. Mi rendevano felice perché, per la prima volta, avevo qualcosa di vero vicino a me, capace di vedermi per quella che ero. Nulla di più. Ma sapevo che c’era qualcosa che lo tormentava, lo vedevo: spesso tornava quel bagliore spento, presagio di preoccupazione, che avevo notato il primo giorno, ma col passare del tempo mi ero sempre più convinta che non fosse solo un’allucinazione.
Ne ebbi poi la conferma. Era un pomeriggio più freddo e più grigio dei soliti, la neve scendeva regolare, inarrestabile, candida nel cielo triste. Ero in ritardo, fu per questo motivo che presi un libro a caso dalla libreria, senza prestare attenzione a ciò che avevo in mano. Me ne resi conto solo una volta arrivata al vecchio fienile abbandonato.
La copertina scarlatta aveva rilegature in oro, nel centro, del medesimo colore, appariva solo un grande 7. Nessun titolo. Capimmo tutto una volta aperta la prima pagina. Non si trattava di un libro, ma di una raccolta di lettere: committenza tra il Kapua del 7 e quelli degli altri distretti, ogni epistola riportava in alto a destra il numero del distretto di provenienza.
Ci furono parole che attirarono la mia attenzione, in tutte le lettere si parlava di «sottomettere per ottenere», «esercito di marionette» o «branco di pecore tutte ugualmente inutili». Frasi come «ai cani va data la quantità giusta di carne, non troppa, non poca. Se è troppa son contenti e non obbediscono, se è poca ringhiano e si ribellano».
Lo guardai. I suoi occhi erano spenti. Non mi trattenni.
– Che c’è? Che succede? – Non erano solo spenti, ancora peggio, erano vuoti.
– Ti devo parlare –. Mi raccontò di quello che stava succedendo, di ciò di cui non mi ero mai resa conto. Non c’era solo la crisi, la gente soffriva la fame, ne moriva, ma era costretta a lavorare, senza retribuzione, per anche dodici ore al giorno. Senza pausa.
Chi si fermava veniva frustato dai Neri, uomini in divise tutte nere, mascherati per non mostrate il volto, nascosto dietro una maschera nera. Chi arrivava in ritardo veniva fatto lavorare delle ore in più. I Neri erano ormai presenti ovunque per tenere sotto controllo i cani.
Mi raccontò di come la popolazione non era rimasta ferma, si erano tutti accorti cosa mirava a fare lo stato: rendere le scuole a pagamento, prezzi altissimi per persone poverissime. Rendere la popolazione ignorante così da creare un esercito di pecore, molto più facile da controllare che un branco di leoni.
Gruppi organizzati di giovani si erano coalizzati in segreto per contrastare il regime dittatoriale. Coinvolta l’intera popolazione ognuno aveva il suo compito: chi di istruire, chi di procurare libri di testo in segreto, chi di organizzare le forme di protesta, chi di far girare i messaggi in codice. Un’organizzazione perfetta. E io non mi ero accorta di niente, troppo occupata a pensare a me stessa, a come fossero falsi molti nei miei confronti. Adirata a causa delle adulazioni. E intanto questi morivano o venivano portati in piazza e fustigati al palo delle punizioni, di fronte agli occhi di tutti, per mostrare la potenza del governo e reprimere ogni forma di ribellione nei cuori dei rivoltosi.
Nel raccontare i suoi occhi si incupivano nel descrivere gli orrori e le sofferenze provate, ma raccontando dell’organizzazione e dei movimenti di rivolta, si accendevano di qualcosa, di una scintilla che ridava loro il colore dell’ambra, risvegliando l’animo combattivo. Ardevano di speranza.
Distruggere il regime dittatoriale impresso dal Kapua. Mio padre.
Ora capivo ciò che per lungo tempo mi era sembrato insensato.
Tator. Dittatore. Nel mio sangue il suo.
Provavo ribrezzo nei suoi confronti. Non potevo essere sua figlia. E invece lo ero. E come tale dovevo reagire. Fare ciò che non avevo fatto per anni: aiutare. Sfruttare la parentela tanto odiata per distruggerla.
La rivolta era pronta, il popolo ben organizzato. Ma aveva paura. Paura del dolore, della frusta. Paura di perdere tutto. Paura per i figli e per i cari. Paura della morte. Avevano solo bisogno di qualcuno che paura non ne avesse, che fosse abbastanza coraggioso da guidare i gruppi dei ribelli. Qualcuno che sapesse contrastare il nemico. Ma soprattutto qualcuno che infondesse negli animi impauriti gocce di speranza.
Speranza, l’unica cosa più forte della paura.
– Voglio entrare nell’organizzazione. Aiutare nella preparazione. Guidare i gruppi ribelli fino all’occupazione e alla cacciata del nemico. Voglio distruggere ciò che mi ha distrutto per tutti questi anni. Non posso permettergli di provocare altro male. Non ho paura di lui, sono pronta a contrastarlo a qualunque costo. Sta arrivando l’estate, è ora che la neve si sciolga.
Era tutto pronto. Il giorno seguente ci saremmo mossi. L’intero distretto avrebbe protestato. Eravamo troppi perché ci fermassero. Li avremmo distrutti.
Tornammo a casa dopo l’ultima riunione, mi accompagnò. Eravamo estasiati, nessuno dei due avrebbe dormito quella sera. Il sorriso non lo aveva abbandonato nemmeno quella notte. I suoi occhi erano ardenti, brillavano come mai prima, carichi di adrenalina. Fiamme d’oro nella notte nera. Sempre più vicine. Sempre più ardenti.
Finché non le sentii sulla pelle, sulle labbra. Non sorrideva più. Ora eravamo una fiamma unica. Calda e umida. Una fiamma che avrebbe incendiato il mondo.
Se non si fosse accesa la luce.
Il destro raggiunse il sinistro. La mente raggiunse il cuore. I capelli volavano leggeri tra i sospiri del vento. Sottili fili di rame scintillanti al Sole. Iniziai a correre, correre come mai avevo corso in vita mia. Iniziai a correre, senza né la voglia né l’intenzione di fermarmi. Correvo senza pensare, senza guardare, cieca al mondo falso e assassino. Il fienile, la panicceria, la panchina. Nulla più mi faceva effetto. Nulla più mi suscitava emozioni.
Tranne che il biglietto che stringevo nella mano. Dopo essere stati scoperti me lo aveva fatto scivolare lentamente nella mano. Lui fu preso. Io fui portata in stazione, treno diretto per chissà quale distretto. Avevano fatto l’errore di lasciarmi sola. Stringevo il pugno attorno a quelle due parole. L’adrenalina pompava il sangue nelle mie vene, ero più forte che mai. I miei piedi volavano sull’asfalto. La fiamma aveva preso forma, ora bruciava inarrestabile.
Aveva iniziato a piovere, sì, ma l’incendio divampava. La neve si stava sciogliendo. Durante la corsa vidi le macerie, i resti della rivolta. Dopo essere stati presi qualcuno diede immediatamente l’allarme. Ci furono subito scontri. L’orologio segnò la mezzanotte. Dodici rintocchi. Al settimo però urlai. Nei piani era quello il momento previsto per iniziare la sommossa. Nel settimo rintocco del settimo giorno il distretto sette si sarebbe ribellato. La neve si era finalmente sciolta, rivelando la strada verso Casa.
Girato l’angolo e raggiunta la piazza lo vidi: era stato legato al palo delle fustigazioni, il suo corpo esanime retto da due Neri, un terzo, in piedi dietro di lui, stringeva in mano una frusta di cuoio macchiata di sangue, non era nero come gli altri due, era nero come un peccatore, un peccatore non pentito, come un capo che ha deluso il suo esercito, il suo popolo.
Nero come un padre che ha perso tutto, compresa la figlia. Vivo nella morte, morto nella vita. Lui era seminudo e sporco, rivoli di sangue e gocce d’acqua gli rigavano il viso, quel volto che, nonostante tutto quello che aveva subito, nonostante il dolore e la sofferenza, rimaneva perfetto, di una bellezza innaturale. I ricci bagnati cadevano deboli sulla fronte. I suoi occhi spenti non chiedevano pietà, ma amore.
Vidi la mano della terza figura alzarsi, per far poi scoccare la frusta sulla sua pelle, lacerandogliela.
Una, due, tre volte.
Il sangue era ormai ovunque sul suo corpo, scendeva lento dalla testa ai piedi; sgorgava dalle innumerevoli ferite che lasciavano intravedere la carne rossa. Non aveva senso. Nulla ormai ne aveva più. La folla ammutolita di fronte alla scena. I segni di una recente battaglia erano distinguibili ovunque: macerie, detriti, vetri e bastoni, cenere e polvere ovunque. Anche sulle persone, molte delle quali erano anche ferite. Sia fisicamente che moralmente.
Lo leggevo loro negli occhi. Guerrieri valorosi che vedono scivolar via piano il loro leader. Sulla piazza regnava ormai il silenzio, disturbato solo dal battito regolare della frusta sulla pelle. Nessuno aveva il coraggio di muoversi. Finalmente il silenzio. Ero rimasta pietrificata di fronte a quella scena: il suo corpo oltraggiato risaltava bello, puro, in contrasto con il paesaggio che lo circondava.
Non avevo la forza di muovermi, era come se tutto quello che stava accadendo attorno a me fosse solo un brutto sogno. Irreale. Invece era tutto vero, il sangue, la polvere, il dolore.
Rimasi immobile, fino a che la figura non trasse fuori dal fodero allacciato alla cintura una pistola. Era pulita, il metallo luccicante. Allora io, stupida nel mio piccolo, tutta scossa e infreddolita, ripresi a correre.
Non vedevo e non pensavo ad altro se non ai suoi occhi, cosa più preziosa al mondo: piccole sfere di luce, di speranza. Quelli che avevano dato vita a tutto. Anche a me.
Mi aveva dato tanto, ma io poco, troppo poco a lui. Mi aveva dato forza e coraggio e fiducia nel prossimo. Mi aveva insegnato a capire l’animo delle persone, guardandole semplicemente negli occhi. Ma più di tutto mi aveva donato il suo amore, amandomi come nessuno aveva mai fatto.
Arrivai al palo nel centro della piazza e mi gettai sul suo corpo, donandogli tutto ciò che mi restava. Amandolo come non ero stata in grado di amare nessun altro. Glielo sussurrai piano nell’orecchio.
Un secondo dopo sentii lo sparo.
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