Un mio anno in Provenza - da Un anno in Provenza di Peter Mayle)
Sono molti e diversi i libri e le storie su cui potrei esporre le mie riflessioni, le mie idee e i pensieri nati dalla loro lettura, ma credo che il libro che io abbia sentito più vicino a me, in cui leggevo con gusto e piacere, attenzione e interesse ogni pagina e ogni parola sia stato Un anno in Provenza di Peter Mayle.
La Provenza è la regione in cui l’autore ambientava il suo racconto, presentandola come una terra di una grande bellezza quasi artistica e una terra solare non solo nel clima, ma anche negli abitanti cordiali e gentili, per i quali la compagnia, l’amicizia e la solidarietà sono valori centrali e riconosciuti da tutti.
Il libro mi colpì particolarmente, perché sorprendentemente in esso trovavo molti aspetti che richiamavano le mie vacanze al mare in Costa Azzurra, rimanendo meravigliato in alcuni passi del testo dove sembrava che non fosse Mayle a raccontare la sua esperienza, piuttosto sembrava che fossi io stesso a ricordare le mie giornate estive.
Il realismo del libro è evidente, l’autore ha voluto comporre un testo con racconti ed episodi molto semplici distribuiti nell’arco di dodici mesi, un anno: sono racconti di viaggi, di diverse esperienze, di giornate con gli amici, di mattine trascorse girando tra i profumi degli affollati e pittoreschi mercati provenzali, che si susseguono tra di loro immersi nello splendido paesaggio rurale del Luberon che cambia mese dopo mese, stagione dopo stagione, ora coprendosi di candida neve, ora scaldandosi ai raggi del sole di Luglio.
Nel mio caso, però, il realismo di Mayle andava oltre: non era solo il racconto realista dell’autore, ma il racconto realista in cui potevo ritrovare anche la mia storia, le mie estati al mare, i numerosi momenti trascorsi con fratelli e cugini a divertirsi e a giocare, potevo ritrovare la mia Provenza e i suoi paesaggi più belli. Potevo ritrovare tre mesi dell’anno. Può sembrare forse un giudizio eccessivo, estremo, ma non lo è.
Ho scoperto questo libro su una guida turistica della Provenza, nelle pagine in cui si citava la presenza della regione nell’arte e nella letteratura, si accennava ai numerosi autori che nelle loro opere avevano raccontato della Provenza o avevano ambientato in questa magica terra le loro storie: così si nominava Petrarca, che ad Avignone aveva incontrato Laura, si nominava Nostradamus, il profeta di St. Remy, si accennava a Victor Hugo, i cui Miserabili erano ambientati nei primi capitoli a Digne-les-Bains; scorrendo nella linea temporale verso anni più recenti non si poteva non notare Frederic Mistral, il grande poeta, e ancor più avanti, accanto a nomi più o meno noti, era riportato: «1989, il libro di Peter Mayle, Un anno in Provenza suscita interesse nel Luberon».
Rimasi colpito da quei brevi accenni che non nascondevano l’originalità del testo, perciò, curioso di conoscere come altri autori avessero guardato a quegli stessi luoghi che io conoscevo, comprai il libro.
La copertina diceva tutto: i morbidi colori di una casa di paese con le tegole rosse e i mattoni color sabbia illuminati dalla calda luce del sole al tramonto. Le finestre non potevano essere che di un colore, trattandosi della Provenza, ovvero il colore della lavanda.
Mayle aveva organizzato il suo libro in una struttura molto curiosa, anche il titolo mi aveva attirato moltissimo, Un anno in Provenza, soprattutto per il mio desiderio di conoscere come apparisse la regione in quel periodo dell’anno in cui io non l’avevo mai visitata, di conoscere come variasse il paesaggio allo scorrere del tempo e cosa di magico potesse rivelare in queste settimane. Il titolo, poi, esprimeva fin da subito una colloquialità profondissima, come se l’autore aprendosi a un dialogo sincero con i suoi lettori si presentasse a loro dicendo: «Venite, vi racconto la mia Provenza».
E così, di fatto, è stato. Peter narrava le sue giornate e molte vicende curiose, che, però, rimanevano sempre incluse nell’ambito strettamente personale: apparivano personaggi curiosi e originali, che affascinavano per la loro tenera simpatia e umanità, come monsieur Faustin o il vecchio Massot, presentato da Mayle con queste parole: «Bonjour, disse, presentandosi e sputando dall’angolo della bocca un mozzicone di sigaretta».
Il realismo di Mayle è veder la realtà con occhi vispi e curiosi, per trovare in essa sempre qualcosa di strano, curioso o divertente, e si allarga dalle immagini al linguaggio stesso: la colloquialità è innegabile e più che l’autore sembra di ascoltare un nonno, un amico che racconta la sua esperienza. I suoi toni caldi e affettuosi hanno sollecitato molto la mia immaginazione, aprendola a riconoscere quanto più possibile le mie estati in ciò che narrava.
Tra le numerose immagini che mi hanno colpito ricordo le descrizioni dei paesaggi, Mayle raccontava di meravigliosi tramonti che io riuscivo a ricreare nella mente dai miei ricordi. Il tramonto in Provenza era bellissimo, quasi degno di un quadro, il sole rosso ancora caldo, verso le sette di sera, si nascondeva sempre più basso dietro alle colline, illuminandone di una luce forte e brillante i contorni irregolari così che queste apparissero già oscurate dall’ombra, ma al tempo stesso contornate di luce. Le rocce rosse del Massif de l’Esterel, poi, al sole brillavano più che mai diffondendo la loro luce su tutto ciò che le circondava: gli alberi di lecci e mimose, le abitazioni estive e i pali del telegrafo in legno sparsi qua e là. Il cielo assumeva una colorazione che anche un acquarello troverebbe difficile riprodurre: la linea dell’orizzonte si tingeva di un arancione delicatissimo, tenerissimo, mentre una sottile linea bianca lo separava dal cielo azzurro soprastante. Così più il sole scendeva, più le sfumature cambiavano: l’arancione lasciava il posto, lentamente, a un rosa sfumato che ben presto si sarebbe convertito in violetto, l’azzurro tendeva ormai al blu, divenendo sempre più scuro.
I pomeriggi in Provenza avevano qualcosa di magico, ma anche qualcosa di malinconico, ricordando ogni volta che un altro giorno era ormai passato, era ormai finito e mancava sempre meno per il ritorno a casa. Lo scorrere del tempo era via via accentuato anche dall’abbreviarsi delle giornate tanto che se a luglio, alle nove di sera, si poteva ancora cenare all’aperto con gli ultimi raggi di sole in lontananza, per fine agosto, ormai il tramonto era anticipato di alcune ore.
Tra le montagne del Luberon Mayle descriveva le sue camminate insieme ai propri cani in cerca di tartufi – come raccontava nel mese di Marzo – oppure per semplice svago.
Anch’io avevo le mie passeggiate lungo quei sentieri di terra battuta che si facevano strada tra le stesse colline a cui prima accennavo. Partivo sempre con i cugini e mio fratello nel primo pomeriggio, facendo scorta di acqua, biscotti, cioccolato, caso mai ci fossimo persi.
Una volta portammo dietro con noi perfino carta e penna per cercar di disegnare una mappa del territorio: dopo le prime curve e i primi duecento metri a riportare minuziosamente il percorso del sentiero fatto e qualsiasi particolare degno di nota, avevamo abbandonato tutto godendoci soltanto i nostri passi. Camminare per quelle colline era sempre bello, era conoscere un mare diverso da quello solito (acqua, spiagge…) a contatto con una natura silenziosa che lasciava spazio nella sua tranquillità a pensieri e leggere conservazioni.
Mi ricordo che tra gli angoli più suggestivi di quelle colline avevamo, un giorno, trovato uno spiazzo circondato da querce di sughero, arbusti e cespugli di lavanda selvatica che si apriva verso sud, verso il mare blu inteso all’orizzonte, lasciando intravedere un scorcio bellissimo. Mayle menzionava spesso nelle sue pagine un’altra caratteristica della Provenza che anch’io ricordavo molto bene: il Mistral.
Il Mistral, o Maestrale, era un vento fortissimo, freddo, che scacciava con la sua forza il caldo dei mesi estivi, a detta di mia madre perfino fastidioso per il mal di testa che provocava, e che Peter ricordava come un «sacré vent, capace di far impazzire uomini e animali». Per me il Mistral rimaneva come uno dei ricordi più belli della Provenza e, quando lo sentivo arrivare, la prima cosa che facevo era inspirare profondamente: mi piaceva sentire quell’aria fredda che portava con sé i profumi delle foglie, del mare, della Provenza. Il Mistral, poi, con la sua potenza mi rendeva leggero come se da un momento all’altro un suo soffio più intenso degli altri mi avesse sollevato, alzato verso l’alto liberandomi di tutti i pensieri.
Potevo ricordare, poi, sempre grazie alle parole del testo, i pranzi all’ombra del giardino per sfuggire al caldo, ai crotins cucinati dalla nonna, alle partite di petanque giù in paese sui campi di ghiaia e sabbia battuta dove ci esibivamo un po’ goffamente nelle stesse mosse del gioco che anche Peter descriveva, e dove non mancava mai qualcuno che barasse in un modo o nell’altro per avvicinare le sue bocce al cochonnet più di quelle degli avversari.
Il dolce, dolcissimo ricordo che conservo della Provenza non è, dunque, solo mare, bagni e mattine che iniziavano alle 11 dopo lunghe dormite, ma è anche intriso di una sapore molto personale che mescola tra di loro famiglia, amici, colori ed esperienze.
Ho letto sul retro del libro che Un anno in Provenza aveva vinto nel 1989 il British Book Award come migliore libro di viaggio: non avrei mai potuto pensare a un premio migliore, perché io, quando la sera leggevo le sue pagine, non ero più a Milano, ero in Provenza.
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