Un'esperienza di lettura
C'era una brutta luce quel giorno, livida e cattiva. Le nubi erano basse sull'orizzonte e tutto sembrava nero e macchiato. Rimasi a guardarlo per mezz'ora, veniva avanti piano piano. Non dico che ebbi un presentimento. Semplicemente, a un certo punto, le lacrime mi sgorgarono dagli occhi, così, da sole.
Così termina il romanzo di Francesco D'Adamo Storia di Iqbal, il cui protagonista è un ragazzino pakistano che trova la forza e il coraggio di denunciare gli sfruttatori del lavoro minorile della fabbrica di tappeti, in cui era costretto a lavorare come schiavo insieme ad altri suoi coetanei, in condizioni disumane.
Devo dire che questa storia mi ha profondamente colpita quando l'ho letta, non solo perché parla dei diritti dei bambini ma anche perché si tratta di una storia vera, che non è accaduta chissà quanti anni fa, ma nel 1995, quando anche io c'ero in questo mondo.
Questa storia però mi ha fatto anche riflettere su una piaga che ancora flagella la realtà: lo sfruttamento del lavoro minorile. Spesso questo problema passa in sordina o comunque non se ne parla abbastanza. Ci sembra una cosa molto lontana da noi, quando invece capita che succeda alle porte delle nostre città, senza che noi ce ne accorgiamo. La memoria si va perdendo. Quella collettiva, ma anche quella individuale, diventa sempre più pigra e sfuocata, davanti a un passato che a furia di essere rimaneggiato, inquinato, revisionato e rimosso, ci porta alla fine a dubitare anche dei nostri ricordi.
Così la Storia di Iqbal può rappresentare una testimonianza, un piccolo contributo per rinvigorire la memoria su una questione così drammatica.
Tutti al giorno d'oggi abbiamo bisogno di ricordare e pensare a come vivono questi bimbi. Venduti dai propri genitori per pagare debiti fasulli; incatenati a un telaio per lavorare ai tappeti che finiranno nelle ville lussuose dei ricchi mercanti; puniti ingiustamente; lasciati spesse volte senza cibo e senza igiene; truffati con false speranze di essere liberati; e persino uccisi. Non hanno più occhi per vedere la luce del sole o il buio della notte, non hanno più le mani, rovinate dagli strumenti dei telai, per giocare a palla, la voce per ridere e cantare, i piedi per correre felici nei prati, il sorriso sulle labbra, quel sorriso che è capace di far sorridere tutti quanti in una giornata triste. Non hanno più i sogni e le favole, la forza e la speranza di essere liberi. Non sono più bambini, perché hanno perso tutto, persino la loro infanzia, e vivono come animali intrappolati in un corpo di fanciulli. E questa situazione si ripete e si ripete per i bambini e le bambine che lavorano nelle miniere o per le multinazionali fabbricando palloni da calcio e scarpe; che vengono sfruttati sessualmente o costretti a prostituirsi; che vengono mandati a chiedere l'elemosina ai semafori delle grandi città; che vengono uccisi per il traffico di organi e altre serie di soprusi.
Io mi chiedo se è mai possibile accettare, e far finta di nulla. Mi rispondo di no, che non è possibile, eppure questo viene puntualmente smentito dalle statistiche, dalle notizie o articoli di giornale, dalle fotografie. Ma la cosa che ancora più mi sorprende e mi indigna riguarda come i colpevoli abbiano il coraggio di sfruttare i bambini, pur essendo magari essi stessi padri e madri. Come hanno il coraggio di comportarsi in questo modo e poi tornare a casa dai propri figli, guardare con loro la televisione, giocare con loro, riempirli d'amore e d'affetto, pur sapendo che hanno lasciato altri bambini uguali ai loro figli a morire o a lavorare? Non hanno una coscienza? Probabilmente no, ma ancora non riesco a trovare una risposta logica a questo mio interrogativo.
Nel 1995 io ero una bambina, proprio come Iqbal, e oggi che sono cresciuta mi sorprendo di una vicenda che è la realtà. Mentre io giocavo, mentre io vivevo la mia infanzia, un altro bambino moriva. Se ci penso mi vengono i brividi! Perché io avevo il diritto di sorridere e vivere e perché lui, come tanti altri, no? E ancora, chi poteva decidere a chi concedere questo diritto e a chi no? Nessuno ha scelto dove nascere. Davvero è questa la spiegazione?
Eppure a tutti questi interrogativi oggi, ma come credo mai, saprò rispondere.
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