La chiave – Flusso di coscienza
2 x [(7 x 3) -9] -5+7= ?
Ok, anch’io ho dovuto pensarci un po’ prima di risolvere quest’espressione. Io e la matematica non andiamo d’accordo, è vero. Ogni tanto mi trovo davanti degli esercizi che fanno quasi paura… Comunque la soluzione è ventisei. A meno che tu non sia un centimane[1] devi chiamare qualcuno per arrivarci con le dita. Ti ci vogliono cinque mani e un dito.
Tornando a noi, anche il ventisei fa quasi paura. Ora penserai che a chi ha scritto l’ultima frase manchi qualche rotella. Senza escludere che ciò sia vero, prima di etichettarmi definitivamente come psicolabile, ascolta il mio ragionamento.
Abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
Contale, sono ventisei. Certo, chi non sa che le lettere dell’alfabeto (contando le lettere straniere) sono ventisei? Ti fa paura questo?
Immaginati un libro, due, dieci, cento, mille. Immaginati una biblioteca immensa, più grande della Biblioteca di Alessandria. Riflettici… Ogni lettera lì contenuta non è altro che una combinazione di linee, qualche lettera e si ha una parola e con le parole si formano delle frasi. Frase dopo frase si riempie una pagina. Quante pagine potrebbero esserci in una biblioteca delle dimensioni di quella di Alessandria? Il numero solo a pensarci è spaventoso. E tutte le pagine sono lettere, ammassi di linee. Pensa a cosa ha fatto quest’insieme di linee. Non mi sto riferendo necessariamente alle nostre ventisei, intendo solo quelle linee che sono la scrittura…
Giusto per dirne una, ha fatto cominciare la Storia. Il potere della scrittura è potenzialmente illimitato. Chissà chi ha scritto qualcosa per primo… Chissà cosa ha scritto…
«Il massimo livello d’astrazione nella rappresentazione di qualcosa si raggiunge quando si scrive il nome di quella cosa».
Chi l’ha detto? La mia professoressa di storia dell’arte, tre anni fa, durante la sua prima lezione con noi. Non che allora sapessi che la storia dell’arte fosse così interessante, ma quell’affermazione mi ha colpito.
Ok, forse non si capisce così, non sono in grado di spiegartelo in una frase. Prendi un quadro cubista, come Les Demoiselles d’Avignon di Picasso. Ti sembrano forse delle donne realistiche? No, però si capisce che sono donne. Potresti anche prendere un orinatoio, capovolgerlo, e farne un’opera d’arte chiamandolo Fontana e avviare così una corrente artistica[2], ma se mai tu avessi successo sarebbe solo perché quel coso assomiglia effettivamente a una fontana.
Uomo.
Ora, dimmi, come cavolo farebbe a venirti in mente un uomo guardando questa parola, se non ti avessero insegnato a leggere e a scrivere? Perché usiamo proprio quelle lettere? Perché in quell’ordine? Perché non va bene scrivere Mouo?
Si può andare avanti così su ogni parola esistente… E dietro tutto ciò c’è sempre lui, l’essere umano, il mouo che ha una testa per pensare, una mano per scrivere. Chi ha in mano una penna può architettare, immaginare, creare, plasmare… sì, plasmare è il termine più calzante secondo me. È la parola che fa da anello di congiunzione tra l’immaginazione pura e il poter fare qualcosa, non so se mi spiego…
«Immagina, puoi» ama dire il mio insegnante di matematica e fisica che, prima di buttarsi a testa bassa in formule e calcoli tenta con le parole di farci capire quello strano mondo di numeri freddi e rigidi. Sì, sta citando qualche pubblicità, ma è lo stesso insegnante che di tanto in tanto cita i cartoni animati ed è davvero in gamba. E nonostante questo a me la matematica fatica a entrare in testa… vabbè, lasciamo perdere.
Hai in mente quelle cose terrificanti ma affascinanti allo stesso tempo? Quelle cose misteriose e terribili che proprio nel loro essere così spaventose racchiudono il loro fascino? La scrittura è così. A cosa servirebbe scrivere se nessuno sapesse leggere? Anche la lettura è fondamentale. Per me lettura e scrittura sono due parti complementari, lo Ying e lo Yang di questo strano immenso universo fatto di lettere. Con le lettere chi scrive combatte, cuce, crea, da vita e morte… come un Dio.
Il lettore… il lettore è un mortale. Subisce, non può opporsi al volere degli dei.
Quante volte ti sei detto: «Be’ se non leggo la riga che lo dichiara espressamente deceduto, il personaggio X non è morto»?
Sarebbe facile la vita del lettore se la cosa funzionasse, ma ahimè no, la lettura non funziona così… No, aspetta, non buttare via il foglio, ti giuro che la cosa è sensata!
Ora ti pongo l’ennesima questione (e no, non voglio sollevare un polverone teologico, voglio solo farti una domandina): senza gli uomini gli dei esisterebbero? Senza essere venerati e adorati dagli esseri umani? Chi crederebbe in loro in nostra assenza? Cosa farebbero se non fossero più oggetto di culto?
Comunque, no, non sto affermando che gli scrittori vadano venerati; sto affermando che gli scrittori, probabilmente, senza lettori non esisterebbero. Nessuno scrive solo per il suo sé puramente scrittore. Chi dice di scrivere per sé stesso vuole essere elogiato, ma anche in quel caso ha bisogno di un lettore che lo lodi.
Ricapitolando: abbiamo uno strumento che collega due individui che hanno ruoli diversi ma vivono in simbiosi e necessitano l’uno dell’altro e viceversa.
Questa è la base di quel fenomeno di lettura-scrittura che avviene ogni istante.
…E allora?, ti starai chiedendo, inarcando un sopracciglio.
Prendiamo una cosa semplice ma efficace: la morte di un personaggio.
La prima volta che, da scrittore, si fa la bastardata di uccidere un personaggio a cui ti sei affezionato per dare uno scossone alla trama… be’, te lo ricordi.
Mi è successo di recente di compiere uno di questi omicidi letterari per cui ogni tanto chi legge i miei racconti vorrebbe strangolarmi. Dovevo davvero ucciderlo, la trama lo prevedeva. Eppure stavo singhiozzando quando descrivevo i suoi ultimi attimi, mi tremava la mano. Ho stretto la penna così forte da farmi sbiancare le nocche.
«Tutto bene?» mi ha chiesto la mia compagna di banco. No, col cavolo che va tutto bene.
«Sì» le ho risposto, tenendo gli occhi fissi su quello che stavo scrivendo. Giuro che se inizio a piangere mi piglio a schiaffi, ho pensato. Poi sono iniziate le considerazioni, i ripensamenti… No, il coma sarebbe peggio. No, non voglio ucciderlo. C’è un’altra soluzione? So che questa morte è un punto chiave della trama, ma… Allora caro cervello, perché te ne vieni fuori con idee del genere e non mi dai altre alternative?
Se è già difficile per molti scrittori scrivere delle morti di alcuni personaggi[3], figurati per un lettore.
La prima vera morte letteraria a cui penso di aver assistito, una di quelle morti che per il lettore sono solo dolore senza senso, penso sia stata quella di tre dei fratelli Pevensie. Non mi ricordo la mia reazione ma, vedendo come reagisco adesso, non penso sia stata bellissima. Quando leggo della morte di un personaggio che ritengo non solo bello, buono e perfetto, ma anche importante per la storia, mi sento un peso in fondo allo stomaco. Divento triste, ho bisogno di buttar fuori quel maledetto peso sullo stomaco che m’impedisce di pensare ad altro o di concentrarmi. Ecco perché ogni tanto mi vedrete con le lacrime agli occhi, devo sfogare il mio dolore. E non succede raramente, giusto per citarne alcuni (Spoiler alert) che spero conosciate: Fred Weasley, Finnick Odair, Max Lightwood, Enjolras, Beth March, Nemecsek…
E non sono solo io a piangere, ridere e a lamentarmi per giorni a causa di queste linee d’inchiostro. Guarda un po’ qui e là e prima o poi trovi di sicuro qualcuno che ti completa la citazione, qualcuno a cui scintillano gli occhi appena parli di quel determinato libro, di quella scena lì, che ti ha fatto ridere a crepapelle.
Queste lettere uniscono le persone, ma non solo. Queste lettere, in formato di libri, sono dei veri e propri tardis[4], pronti a trasportare chiunque possa leggere (o ascoltare qualcun altro che legge) dovunque, in qualunque momento; come solo un libro può fare.
Grazie ai libri ho vissuto tra i Minimei, ho assistito agli orrori della guerra sul Fronte Occidentale, ho camminato tra i pellegrini a Santiago de Compostela, ho subìto il freddo con i cercatori d’oro in Alaska, ho potuto essere presente quando Aristotele ha fatto lezione ad Alessandro il Grande, ho preso parte a un processo dell’Inquisizione, ho visitato Hogwarts, Panem, la Terra di Mezzo, i Sette Regni, Lilliput, Spiderwick, Narnia, Idris e l’Inferno.
Questo non è tutto.
Come ho già detto, se il lettore e lo scrittore vivono per le lettere, vivendo l’uno in dipendenza dall’altro, anche il leggere e lo scrivere sono due metà di un unica arte. Quest’arte, alla base della quale ci sono sempre le ventisei lettere, che ogni tanto è così sublime[5] da portare un uomo alle lacrime. Già, quest’arte ti impiastriccia la mente e l’anima, le colora, trasformandoti. Non sei d’accordo? Credo fermamente che prima o poi, tutti trovino un libro, che apre la mente e gli occhi. Quel libro che ti fa rimanere boccheggiante dopo aver voltato l’ultima pagina, quello di cui si conosce la posizione anche del bel mezzo del macello di un trasloco, tanto è prezioso. Non l’hai ancora trovato? Corri, vai a cercarlo in casa, in libreria, in biblioteca.
L’hai trovato? Vai a rileggerlo questa sera, entra nel tuo tardis e pensa che… è solo una combinazione di ventisei lettere.
Questa è la magnificenza dell’alfabeto.
Io, di queste lettere affiancate l’una all’altra, voglio approfittarne finché non smetterò di respirare. Nessuno mi toglierò mai la voglia di infilare il naso in un libro e, girando pagina dopo pagina, finirlo. Nulla mi farà mai smettere di aver voglia di ballare anche nelle situazioni meno opportune se mi viene l’ispirazione per dare vita a mia volta ad altri tardis, che siano temi o trame di romanzi.
Ecco, ora se vuoi appiccicarmi in fronte l’etichetta di pazzoide fai pure, io devo andare a finire degli esercizi di matematica davvero spaventosi.
P.S. Ora ti chiederai il perché del titolo. Cosa c’entrano le chiavi? Be’ mi sembra ovvio che l’alfabeto sia la chiave che apre la porta del mondo della lettura e della scrittura.
Note:
[1] Non che io abbia nulla contro i centimani, sia chiaro…
[2] Mi dispiace deluderti, ma se l’altra notte hai avuto questa stessa, magnifica idea, un tale chiamato Marcel Duchamp l’ha già messa in atto brillantemente circa un secolo fa.
[3] Ci sono però casi, a mio parere, che fanno da eccezione alla regola (Spoiler alert): John Green con Augustus Waters, George R. R. Martin con Robb Stark…
[4] In Doctor Who è una navicella spaziale/macchina del tempo usata dal Dottore per viaggiare nello spazio, nel tempo e nelle dimensioni.
[5] Inteso come il sublime caratteristico del Romanticismo.
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