Fogli bianchi
Il silenzio della stanza fu interrotto dal suono insistente di una sveglia, posta su un comodino di legno scuro, con gli intarsi che il tempo ormai aveva reso simili a rughe.
Una mano tremante sbucò da sotto le coperte e riuscì ad ammutolire l’allarme. Come tutte le mattine, Marco ci mise un po’ prima di sollevare il capo e cercando di strofinarsi gli occhi con la mano destra, sentì qualcosa premergli sul petto.
Nonostante fosse in preda a quel torpore che gli era stato compagno durante la notte, intravide tra il pollice e l’indice una penna che poggiandosi sulle lenzuola bianche, aveva creato una macchia scura di inchiostro, come se gli incubi di Marco fossero riusciti a diffondersi dal suo corpo all’aria durante il sonno.
Spostò il capo prima a destra, notò sul pavimento dei fogli bianchi, sporcati con una bella calligrafia, poi voltò lo sguardo a sinistra e con stupore si accorse che la madre Naturel aveva passato la notte accanto a lui.
Delle dolci parole affiorarono nella sua mente: «Buonanotte Marco, a domani mattina!».
La felicità del momento fu oscurata da una nube di sensazioni spiacevoli, dolori alle gambe, alle mani, alla testa. La sua malattia si stava aggravando di giorno in giorno. Pochi mesi prima era un ragazzo normale, uno di quelli che quando gli chiedevi «Ehi! Marco, stasera vieni a giocare a pallone con noi?» rispondeva «sì, sì, bella! Porto io il pallone!».
Ma poi qualcosa di strano si impossessò del suo corpo e lo imprigionò in quel letto a sbarre. Niente più corse nei prati, niente più tuffi in piscina d’estate e niente più pattinate sulle piste ghiacciate montate in piazza durante i freddi inverni. La sua vita era quella lì, segregato in casa, con il sole che si faceva beffa di lui illuminando le finestre della sua cameretta, con raggi caldi e dorati, quasi a dirgli «Dai su, vieni fuori a far volare un aquilone».
Ma Marco non lo poteva fare, stava morendo.
I medici non sapevano cosa avesse, nonostante innumerevoli visite, controlli, tac e risonanze. Ma il ragazzo non aveva mai smesso di vivere, di correre e fare tutte quelle cose consone a un ragazzino di quattordici anni. Vi starete chiedendo «Come?». Beh, leggendo.
Tra le pagine di un libro, uno dopo l’altro, Marco aveva scoperto miriadi di personaggi e creature che gli tendevano la mano e lo portavano con loro nel mondo della fantasia. Marco era sempre più debilitato; il giorno prima era passato il dottore, lo aveva visitato e subito dopo aveva sussurrato qualcosa a sua madre, abbassando il capo e mettendole una mano sulla spalla, come quando i preti tornati dalla guerra, dovevano comunicare alla famiglia di un deceduto la sua morte. Anche il ragazzo ebbe questa sensazione.
A Marco non piaceva solo leggere, era attratto anche dalla scrittura. Si era accorto della magia contenuta in essa, della forza che ne scaturiva, della sua capacità di dare vita a mondi nuovi, far scaturire sentimenti nei cuori delle persone.
«Buongiorno Marco».
«Oh, ciao mamma! Hai dormito eh?!».
«Sì, ti sono stata vicino come facevamo quando eri piccolo, ricordi?» e una lacrima solcò il suo viso, ma se l’asciugò subito, per non intristire il figliolo.
«Sì mamma, mi accovacciavo sempre sulla tua pancia, appoggiavo la testa sul tuo seno, mi sentivo protetto…».
Ora sua madre sorrise «oh, bene, hai la memoria lunga eh??».
Si alzò dalla sedia e vide i fogli per terra. «Ti sono caduti, aspetta che te li raccolgo» e glieli porse « ma cosa stai scrivendo?».
«Un segreto mamma» tossì e bevve un bicchiere d’acqua sperando che il fluido lavasse via il dolore «un segreto mamma…».
Naturel uscì dalla stanza. Marco si ritrovò solo con la penna, i fogli e un gran dolore diffuso. Dentro di sé sentì che il tempo stava scadendo, come se la sveglia suonata quel mattino avesse innescato un altro timer dentro di lui, il timer di una bomba a orologeria.
Così si armò di buona volontà e riprese la scrittura, sporcando con la sua bella calligrafia quei fogli bianchi. La penna scorreva su di loro come l’aratro dei contadini nei campi.
Tic-tac tic-tac tic-tac. Il timer si avvicinava sempre più allo zero e Marco lo sapeva, lo sentiva, stava sempre più male; andò avanti tutto il giorno fino alla sera, fino a quando…
Boom!
La morte di fianco al letto rideva per il bel lavoro svolto, rideva per aver mietuto l’anima di un ragazzo, rideva perché semplicemente aveva fatto il suo dovere.
Nella stanza ora c’erano i parenti vestiti di nero con la tristezza dipinta sui volti, c’era chi piangeva e chi consolava la madre con parole di conforto «Tranquilla Naturel, condoglianze».
Al funerale la chiesa era piena. Dopo la predica, la donna salì all’ambone e iniziò a parlare. «Marco era un ragazzo come tanti...» tirò fuori dei fogli bianchi, sì, proprio quei fogli bianchi.
La madre disse: «mio figlio Marco è morto, è morto scrivendo questo diario, in cui sono contenuti tutti i suoi ricordi più belli» e ne lesse alcuni.
Poi disse: « vorrei concludere con le sue ultime parole: “Madre, vorrei ringraziarti per avermi messo al mondo, non essere triste se Dio Padre mi ha chiamato a sé. Quando leggerai queste parole probabilmente sarò morto, vorrei che tu non te la prendessi con Dio. Ho scritto questo diario per te, così quando sentirai la mia mancanza mi troverai vivo tra queste parole. La scrittura rende liberi, la scrittura rende eterni!”».
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